Il professor Virginio Pedroni si immerge in un’analisi del tutto originale sulla guerra, rievocando la parola dimenticata, quella della pace
LUGANO - «Una pace giusta dovrebbe in primo luogo comportare il ritiro delle truppe russe dal territorio ucraino, Crimea compresa». Non ha dubbi lo studioso ticinese Virginio Pedroni nel citare la parola che è oggi pressoché scomparsa dal dibattito pubblico e politico, quella della pace. «Naturalmente in questo modo il rischio è che la ricerca di una pace giusta si trasformi in una guerra infinita. Se e dove si troverà un punto di equilibrio probabilmente dipenderà dai risultati militari sul campo, e sarà una storia lunga e terribile», continua il professore, a cui chiediamo un'analisi filosofica "super partes" del conflitto ucraino.
Nell'intervista realizzata con l'esperto di geopolitica Pietro Figuera, è emerso che «si doveva trovare un dialogo prima dello scoppio della guerra»; è davvero troppo tardi a questo punto?
«Che si sia sottovalutato il problema in precedenza è forse vero, nel senso che si sono prese sotto gamba sia la politica aggressiva di Putin, sia le tensioni interne all’Ucraina. Con l’invasione russa vi è stato un salto di qualità e il costo per ritrovare un nuovo equilibrio, per quanto fragile, sarà altissimo».
Se dovesse approcciare Putin e Zelensky su cosa punterebbe per riportarli al tavolo della pace?
«Il grande teorico cinese della guerra Sun Tzu diceva che la guerra non comincia quando qualcuno attacca, ma quando l’aggredito decide di difendersi. Per far finire il conflitto in fretta bisognerebbe convincere Zelensky ad arrendersi, il che sarebbe impossibile e soprattutto profondamente ingiusto; allora occorrerebbe convincere Putin a ritirarsi, il che sarebbe giusto, ma altrettanto impossibile. Chiuse queste due strade, temo che per il momento ci sia poco da dire. Solo quando i contendenti penseranno che per loro continuare la guerra sia meno utile che smetterla, si metteranno a trattare».
E allora che fare per giungere a una tregua?
«Meno armi si danno a Zelensky e più presto egli penserà che sia giunto quel momento, anche se ne andrebbe dell’indipendenza e dell’integrità del suo paese. Più armi gli si daranno, e prima lo penserà Putin, il che sarebbe augurabile se non vogliamo premiare la sua politica aggressiva. Ma nel frattempo sarà morta ancora molta gente, senza voler pensare al peggio del peggio: il passaggio al nucleare. Come sempre, si sa più o meno quando le guerre cominciano, ma è ben difficile, anche per i belligeranti stessi, prevedere quando e come finiranno, visto che i contendenti sono almeno due ed entrambi vogliono assolutamente vincere».
Quale il fine ultimo di Putin?
«Credo che Putin voglia tentare di ricostituire l’impero russo, ma non ne abbia i mezzi economici e demografici. Però è comunque a capo di un Paese con una grande capacità di resistenza, di sofferenza potremmo dire, e con un arsenale nucleare imponente. Non riesce ad accettare l’idea che altri, come Stati Uniti ma anche Cina, siano più forti. Ciò lo spinge, addirittura, a menzionare esplicitamente il possibile uso dell’arma atomica, la cui sola evocazione è un gesto gravissimo».
Certo è che anche le parole di Jens Stoltenberg (Nato) non sono delle più concilianti.
«Sulla politica della Nato degli anni scorsi si può certo discutere, ma resta un fatto: l’Alleanza atlantica per allargarsi ha dovuto limitarsi ad accettare le spontanee richieste di adesione dei vari paesi, mentre la Russia per espandersi deve inviare i carri armati e conquistare con la violenza i territori. Diciamo che non appare molto attrattiva, può esercitare dominio che è basato sulla forza, ma non una vera egemonia dove occorre anche il consenso».
Ue e Usa sembrano essere vicini a un coinvolgimento diretto.
«La teoria che quella degli ucraini sia una "resistenza per procura" da parte della Nato mi pare inaccettabile, come se fossero un intero popolo di mercenari, donne e bambini compresi. Non dimentichiamo che all’inizio in Occidente quasi nessuno pensava che potessero resistere».
Professore, perché non si parla più di pace?
«Di solito non si parla della pace ma della guerra, come non si parla dell’aria ma del suo inquinamento. Il problema non è la pace, ma la guerra. Nonostante la guerra sia riconosciuta come un problema, anzi una sciagura, ce la troviamo sempre fra i piedi. Per tanto tempo nella storia umana è prevalsa l’idea che fosse inevitabile, e molti, che potremmo chiamare "bellicisti", l'hanno anche considerata una cosa tutto sommato buona: l'Iliade di Omero è un testo fondativo della nostra civiltà e narra di una guerra, la guerra di Troia, forse senza assolverla, ma certamente senza condannarla».
La storia dunque sembra però non insegnare nulla.
«Il carattere così distruttivo delle due guerre mondiali, la seconda delle quali si è conclusa con lo scoppio di due bombe atomiche, ha reso la guerra ancora più inaccettabile, assurda, e rafforzato il pacifismo: si pensi alla fondazione di Onu e Ue. Ma, come si vede, la tentazione della guerra rimane sempre, come anche una certa rassegnazione e sottovalutazione delle sue conseguenze».
Perché abbiamo la memoria così corta?
«Quando pensiamo alle guerre della storia tendiamo a celebrare le vittorie, a erigere archi di trionfo e a dimenticare il dolore delle vittime e i morti a cui nessuno potrà più restituire la vita. Forse perché i protagonisti della storia sono comunque tutti morti, i morti delle guerre passate non risaltano a sufficienza. E poi sono sempre i sopravvissuti, di solito i vincitori, a scrivere la storia».
Sembra che dal dibattito sulla guerra in Ucraina siano spariti anche i pacifisti.
«È naturale che la questione sia molto controversa. Il rischio oggettivo è che dietro la parola "pace", in questa circostanza, si possa nascondere un atteggiamento indulgente nei confronti dell'aggressore, cioè di Putin. Anche il semplice dire "Va bene, è lui il principale colpevole, ma ora fermiamoci!", rischia di fare il suo gioco, premiando un atto di forza inaccettabile. D'altra parte, il carattere sempre più distruttivo del conflitto e i pericoli che comporta per tutti non possono che infondere dubbi anche in chi vuole aiutare l’Ucraina a difendersi. Per questo le nostre opinioni pubbliche sono molto divise e forse sempre più insofferenti nei confronti della continuazione della guerra».
Ben diverse furono le reazioni in occasione dell’invasione Usa dell’Iraq e della guerra in Vietnam.
«Allora volere la pace significava chiaramente dire all'aggressore, gli Usa, di tornarsene a casa. Gli aggrediti, a differenza di oggi, erano naturalmente contenti che in Occidente si manifestasse per la pace. Lo si faceva anche se alla testa dei popoli vittime dell’aggressione non ci fossero certo solo stinchi di santo; ricordo ad esempio i nomi di Pol Pot e di Saddam Hussein: il primo trasformò, dopo la vittoria, la Cambogia in un immenso campo di sterminio; il secondo, feroce dittatore, aveva fatto uso regolare dei gas velenosi durante la guerra fra l'Iraq e l'Iran. Ma, al di là di tutto questo, chiedere il ritiro, cioè la sconfitta, degli Americani fu giusto».