L'infettivologo Massimo Galli: «Le possibilità di contagio di un comasco sono uguali a quelle di un luganese».
Dubbi vengono nel frattempo sollevati sulle tempistiche di diffusione e di incubazione. «I dottori cinesi si sono accorti o hanno deciso di accorgersi del virus solo in dicembre».
MILANO - Confusione, smarrimento, paura. Sono queste le sensazioni che hanno investito i cittadini europei una volta avuta la certezza che, da semplice notizia da telegiornale riguardante un angolo di mondo lontano, il coronavirus era divenuto uno scomodo vicino con il quale convivere.
Il contagio, che a seconda dei casi e della convenienza è stato definito da “poco più che un'influenza” fino a “una pandemia”, ha accentuato il primordiale istinto di autoconservazione di ognuno di noi e modificato abitudini e regole. Nelle regioni italiane più colpite hanno chiuso scuole, musei, anche chiese. Lo sport? Fermo o mutilato al di là e – nella maggior parte dei casi – pure al di qua del confine. Aziende in quarantena, mobilità ridotta... la quotidianità, compresa una diffusa sensazione di insicurezza, ha risentito di un virus del quale si conosce ancora poco e del quale quel poco che si sa potrebbe non essere esatto.
Come le tempistiche della sua diffusione e di incubazione, per esempio.
Uno studio della Clinica delle Malattie Infettive del DIBIC, effettuata all'Ospedale Sacco di Milano, ipotizza la “nascita” del Covid-19, in Cina, già a ottobre-novembre e la sua presenza in Italia fin da gennaio. Nel Lodigiano, per esempio, si parla di “strane polmoniti” fin da dicembre-gennaio.
«Questa è la mia idea – ha raccontato Massimo Galli, primario infettivologo dell'ospedale Sacco di Milano – maturata studiando le anamnesi dei tanti ricoverati. Credo che il virus sia passato dagli animali all'uomo a ottobre-novembre e che per tutta la prima fase sia cambiato poco e abbia avuto un basso potere infettivo. Nel momento in cui ha iniziato a mutare velocemente, ha poi cominciato a essere trasmesso con efficacia. Questo è accaduto, a parer mio, già a dicembre. Ed è a quel punto che i miei colleghi cinesi si sono accorti o hanno deciso di accorgersi del problema».
I tempi sembrano quindi essere più lunghi di quelli finora raccontati. I 14 giorni di incubazione...
«Non facciamo confusione. I tempi dei quali stiamo parlando sono quelli della diffusione del contagio. E potremo stabilire con precisione a che punto siamo arrivati solo quando le sequenze – tratte da materiale biologico - isolate in gennaio in Italia potranno essere confrontate con le sequenze datate isolate in Cina. A quel punto potremo provare a stabilire quanto cammino ha fatto il virus, quanta storia c'è dietro...».
L'incubazione quindi?
«Quella riguarda il singolo individuo. Mediamente è di 5 giorni. Normalmente è compresa tra 3 e 7 giorni. Solo il 5% dei contagiati supera i 12,5 giorni di incubazione».
Da qui le due settimane di restrizioni imposte in molte regioni italiane.
«Esatto. Misure prese per tentare di limitare il contagio».
Il Covid-19 è però comunque entrato in Italia.
«Chi dice che abbiamo esitato troppo a lungo per fermare i voli diretti provenienti da Wuhan e poi dalla Cina dice bestialità. Tanto più che, visti i tanti casi registrati e la loro maturazione contemporanea, quella che il virus sia in Italia fin da gennaio è più che un'ipotesi. Anche se una certezza non potremmo averla forse nemmeno studiando le sequenze del virus. In quel caso i blocchi sarebbero comunque stati tardivi. La verità è che qualcuno – la cui nazionalità è poco rilevante - è arrivato qui da noi senza avere sospetto di essere contagiato e ha cominciato a diffondere il virus nella zona rossa. Il tutto nel pieno dell'influenza stagionale».
Con una chiusura più veloce del contatto con la Cina...
«Guardate che il contagiato potrebbe anche essere arrivato con una “triangolazione”. Ignaro di essere malato, qualcuno potrebbe aver fatto scalo in qualsiasi aeroporto del mondo prima di atterrare a Milano. Se poi lì è arrivato».
La lunga permanenza del contagio in Italia e il fatto che il Covid-19 potrebbe essere stato, in un primo momento, confuso con una “strana polmonite”, fa sorgere un'altra domanda: quanto senso ha la zona rossa di contenimento? Di contagiati “ignari” potrebbero essercene in molte altre zone...
«Ha senso perché è in quel luogo che si è verificato il numero più alto di casi ed è dove, comunque, sembra essere partito tutto. Ci auguriamo ovviamente che le misure prese ci diano ragione. E che portino a un miglioramento della situazione».
Com'è possibile – tenuto conto del numero di persone coinvolte – che l'area urbana di Milano e le province limitrofe non abbiano avuto numeri significativi di contagiati come il Lodigiano? In alcuni casi si parla di poche unità. Il Canton Ticino, che geograficamente non è distante, ha per ora fatto registrare “solo” due contagiati, mentre qualche decina di pazienti è risultata negativa al tampone.
«Evidentemente lo sforzo fatto per il contenimento del virus sta funzionando. Però non chiedetemi certezze».
Nel senso che i numeri ufficiali potrebbero essere errati?
«Nel senso che per ogni persona ricoverata ce ne sono potenzialmente tre che non manifestano sintomi e, quindi, non si sono mai sottoposte a un controllo. Solo la storia ci dirà quanti saranno stati, alla fine, gli individui che avranno avuto a che fare con il virus».
La chiusura delle frontiere con l'Italia, in Svizzera non è mai stata presa in considerazione. Parallelamente a tale scelta politica, alcune aziende hanno in ogni caso deciso di muoversi autonomamente, chiedendo ai dipendenti frontalieri di evitare di presentarsi sul luogo di lavoro per il classico periodo di incubazione.
«Guardate, i frontalieri non sono un problema: hanno meno probabilità di aver avuto contatti con la zona rossa di quante ne abbia avute io. La nostra preoccupazione riguardava l'area metropolitana di Milano perché era quella dove molti dei residenti di Codogno si spostavano quotidianamente. Stando alle tante macchine targate “TI” che vedo in città e pensando agli interessi di chi vive nelle zone vicine al confine, credo che le possibilità di contagio di una persona che vive a Como siano le medesime di quelle di una che vive a Lugano».