Nell'ultimo rapporto di Reporter senza frontiere il dito è puntato contro Pechino. Ma non solo
PECHINO - Nelle sue prime e silenziose fasi, la pandemia ha costretto l’informazione a rincorrere il coronavirus. Agli indici di chi ha subito puntato il dito contro la Cina, si aggiunge quello di “Reporter senza frontiere” (RSF), che nel suo ultimo rapporto parla di «una chiara correlazione tra la repressione della libertà di stampa» nell’ambito della pandemia «e la posizione di un determinato paese nell’indice» compilato annualmente dall’organizzazione.
La graduatoria include 180 bandiere e la Cina siede al posto numero 177. Quasi in fondo alla lista «e sembra non intenzionata a imparare la lezione impartita dalla pandemia di coronavirus, la cui diffusione è stata facilitata dalla censura e dalle pressioni esercitate sugli informatori», scrive RSF criticando Pechino che inoltre «ha sfruttato la crisi per serrare ulteriormente il controllo sui media», oscurando ogni voce determinata a mettere in discussione la gestione dell’emergenza. A bilancio si contano tre opinionisti in manette e 16 corrispondenti stranieri espulsi dal Paese dall’inizio dell’anno.
I "focolai" di censura - La Cina è però in discreta compagnia. Nelle Filippine il "To Heal As One Act" prevede l'incarcerazione per chi diffonde "fake news" legate all'emergenza pandemica, ma è la proverbiale spada di Damocle che pende sulla testa di ogni giornalista pronto a firmare un articolo che non incontra i favori del governo di Duterte. Mentre in Corea del Nord, il Paese ufficialmente senza casi, il coronavirus non esiste. E questo - rileva RSF - nonostante gli appelli esterni rivolti da Pyongyang alla comunità internazionale per il sostegno nel combattere l'emergenza.
Ombre in ogni continente - Gli spettri dell'autoritarismo infestano però ogni continente del globo. In Egitto - il paese africano che registra più casi di contagio - attraverso il Consiglio supremo per la regolazione dei media sono stati chiusi oltre una dozzina di portali d'informazione per, da quanto emerge, aver messo in discussione la capacità del sistema sanitario nazionale di fronteggiare l'epidemia.
In Sudamerica a guidare la classifica del contagio è il Brasile. Il presidente Jair Bolsonaro - che pochi giorni fa ha preso parte a una manifestazione anti-lockdown - ha ripetutamente attaccato i media per aver, a suo dire, diffuso informazioni «tossiche» e «ingannevoli». E dopo aver ignorato le raccomandazioni del suo governo e dell'Oms, si è anche guadagnato una censura da colossi social come Twitter.
In Europa a svettare negativamente è invece l'Ungheria di Viktor Orban, che con la nuova legge "coronavirus" si è assicurato i pieni poteri, con tanto di controllo diretto e totale sulla stampa. In termini teorici, il nuovo strumento permette di condannare fino a cinque anni la pubblicazione di notizie false. De facto è però l'esecutivo ungherese a decidere in merito alla validità di queste. La legge in questione concede al premier la possibilità di governare per decreti per un tempo indeterminato, «minacciando di cancellare una volta per tutte l'informazione indipendente nel Paese», scrive RSF. E forse non solo quella.