Il ministro degli Esteri di Kiev, Dmytro Kuleba, non vede la fine del conflitto: «Se vuoi la pace non mandi missili ogni settimana»
KIEV / MOSCA - «La triste verità» è che non è ancora arrivato il momento di negoziare per porre fine alla guerra in Ucraina. Nel 290esimo giorno di invasione, il ministro degli Esteri di Kiev Dmytro Kuleba chiude al dialogo con Mosca dopo che ieri Vladimir Putin aveva parlato di un accordo «inevitabile» da trovare prima o poi per mettere fine al conflitto.
«La ragione è proprio Putin», ha osservato Kuleba, perché «se vuoi la pace non mandi missili ogni settimana per distruggere le nostre infrastrutture. Non continui a mandare militari per catturare le nostre città. Non annetti territori che sono di altri».
La logica è chiara, la pace è lontana. In ogni caso, prima o poi «arriverà il momento della mediazione - ha concesso Kuleba - e se la Santa Sede vorrà partecipare sarà benvenuta». Le ultime parole del Papa, e soprattutto le sue lacrime, «sono arrivate dritte al cuore degli ucraini. Abbiamo visto quanto la sua reazione fosse sincera e profonda e speriamo in una sua visita qui», ha detto il ministro accogliendo nel suo ufficio un gruppo di giornalisti internazionali in missione con l'ambasciata ucraina presso la Santa Sede, tra cui l'agenzia di stampa italiana ANSA.
La speranza della Nato è che il fuoco cessi il prima possibile, perché «se le cose vanno male, possono andare terribilmente male». E quella in Ucraina «può diventare una grande guerra a pieno titolo tra la Nato e la Russia», secondo il segretario generale Stoltenberg. «Stiamo lavorando ogni giorno per evitarlo» ma «non c'è dubbio che sia una possibilità», ha avvertito.
Per Kiev però esiste una sola formula di risoluzione del conflitto, che parte prima di tutto dall'integrità territoriale dell'Ucraina. Una possibilità inaccettabile per il Cremlino. Quindi, si continua combattere. Perché «la pace per un Paese sotto attacco non può essere raggiunta deponendo le armi. Non sarebbe pace, ma occupazione», ha osservato chi della pace ha vinto il premio Nobel: Oleksandra Matviychuk, che a Oslo ha ritirato il riconoscimento assegnato al Centro per le libertà civili (Ccl) dell'Ucraina, di cui è direttrice.
Quello di quest'anno è un Nobel simbolico, condiviso tra il centro ucraino, l'organizzazione russa Memorial e il dissidente bielorusso incarcerato Ales Byalyatski. Nazioni divise dai governi ma unite nell'attivismo per i diritti umani. Quella di Putin è «una guerra folle e criminale», ha denunciato dal palco norvegese il presidente della ong russa Memorial Yan Rachinsky, che ha rivelato come il Cremlino gli avesse chiesto di rifiutare il premio. Per Byalyatski il riconoscimento è stato ritirato dalla moglie, che riportando le parole del marito ha denunciato come Putin desideri rendere l'Ucraina «una dittatura dipendente» da Mosca, come ora è già la Bielorussia di Lukashenko.
Da Oslo arriva quindi il messaggio che sono i potenti a odiarsi, non la società civile. Ma ben poco si può ottenere senza che siano i governi a scegliere di sedersi al tavolo della pace. Una possibilità che al momento appare remota, tanto che da una parte all'altra del fronte la corsa alle armi continua: secondo Washington, Russia e Iran starebbero valutando la produzione congiunta dei famigerati droni che portano distruzione e morte in Ucraina, con le relazioni tra Mosca e Teheran rafforzate a tal punto da diventare un vero e proprio partenariato di difesa. Una prospettiva confermata anche dagli 007 britannici.
Dall'Occidente continua invece il sostegno militare a Kiev, ma gli Stati Uniti tentennano alla richiesta del governo di Zelensky di avere bombe a grappolo, bandite da oltre 100 Paesi e usate dalla Russia nel conflitto. «Abbiamo preoccupazioni sull'uso di questo tipo di munizioni», ha detto il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa.
Intanto sul terreno continua lo scontro. Secondo Zelensky, gli invasori hanno ridotto in macerie fumanti Bakhmut, con la situazione in prima linea che «rimane molto difficile nelle aree chiave del Donbass». Mosca dice di avanzare nel Donetsk e a Lyman, mentre Kiev si avvicina a Kremennaya, nel Lugansk occupato. Le forze ucraine hanno abbattuto 10 droni kamikaze russi nella notte. Gli stessi droni che invece hanno colpito a Odessa, privando del tutto le case dell'elettricità. Le bombe non conoscono tregua in tante regioni del Paese.
E non c'è pietà per nessuno, nemmeno per i feriti, le madri o i neonati: secondo le autorità ucraine, le truppe russe hanno colpito il reparto maternità di un ospedale della città di Kherson, danneggiando la struttura. Fortunatamente, operatori sanitari, pazienti e bambini sono rimasti illesi. Un attacco avvenuto all'indomani di un raid simile, contro l'ospedale di Berislav. «Ospedali, centri per bambini: gli obiettivi preferiti dei terroristi russi. Oggi hanno dimostrato di essere persino inferiori ai terroristi quando hanno colpito il reparto maternità», ha tuonato il ministero della Difesa di Kiev. Dall'inizio della guerra le forze dell'ordine ucraine hanno annunciato di aver documentato «47'000 crimini di guerra» commessi dagli occupanti, «tra cui torture, stupri e uccisioni di civili».