Marco Noi, Gran Consigliere dei Verdi del Ticino
Sono trascorsi pochi giorni dalla cerimonia ufficiale d’inaugurazione del tunnel di base del Ceneri, momento in cui sono state lodate e celebrate le capacità della Svizzera di compiere opere straordinarie per complessità tecnica, sforzo fisico e politico. Su questa splendida opera, che - si è detto - inaugura il nostro futuro, aleggiano tuttavia pesanti ombre.
Fuori dal recinto dei festeggiamenti, protetto e delimitato da un apparato di sicurezza, si è infatti svolta una manifestazione di rivendicazione per i diritti degli operai che hanno realizzato parte dell’opera, affinché ottengano una celere risposta dalla Giustizia ticinese, presso la quale alcuni di loro hanno deposto nell’ottobre 2018 una denuncia per usura e tratta di esseri umani.
Di questi fatti, ne aveva riferito il settimanale d’approfondimento Falò con il servizio del 4 aprile 2019 dal titolo interrogativo “Il cantiere della vergogna?”. L’inchiesta giornalistica mostrava come l’azienda italiana Generali Costruzioni Ferroviarie (GCF) che aveva vinto il concorso pubblico per l’armamento ferroviario del Ceneri con un’offerta di ben il 30% inferiore alla concorrenza, facesse lavorare i propri operai fino a 15-16 ore al giorno senza rispettare riposi e festivi, per poi taglieggiare in vari modi i loro stipendi. In sostanza, una crassa violazione del contratto collettivo imposto dal concorso pubblico.
L’inchiesta mostrava che tale pratica illegale fu impiegata dalla stessa GCF anche in analoghi cantieri in Danimarca. Gli abusi denunciati dagli operai attraverso i loro rappresentanti sindacali avevano portato a diversi accordi extragiudiziali accettati da GCF per l’indennizzo di parte del maltolto. Anche se è d’obbligo attendere l’esito della procedura penale avviata in Ticino e condotta dal PP Andrea Gianini, l’accordo extragiudiziale firmato in Danimarca da GCF, costituisce un’ammissione di colpa che conferma le denunce degli operai attivi nel tunnel del Ceneri.
Che tali abusi siano sistematici è confermato da un’altra inchiesta giornalistica di Falò del 24 novembre 2016 intitolata “Dietro le quinte del lusso”. Questa mostrava come dietro gli introiti fiscali incassati nel nostro cantone grazie alle ditte della moda, vi erano esattamente le stesse pratiche di sfruttamento di lavoratrici e lavoratori attivi in Italia. Fu interessante l’intervista rilasciata in quell’occasione da Christian Vitta, il quale oltre a ipotizzare proprio una sistematicità di tali pratiche, attribuì la loro esistenza alla mancanza del “sistema paese italiano” nel controllare le attività di tali aziende, proteggendo così i lavoratori.
Ora queste pratiche illegali sono arrivate anche in Ticino. La grande domanda è se il “sistema paese ticinese e svizzero”, per parafrasare le parole di Vitta, saprà dare prova di maggiore efficacia di quello italiano, nel sanzionare rigorosamente queste “esternalità”. Vi è da sperare che i quasi due anni trascorsi dal deposito della denuncia e in particolare i 7 mesi intercorsi prima di perquisire gli uffici del cantiere, siano l’espressione di un’inchiesta approfondita e condotta con perizia e non l’espressione di una collusione delle nostre Istituzioni con organizzazioni aziendali degradate e criminose semplicemente per avere un futuro più “a buon mercato”. In ballo c’è lo Stato di Diritto.