Sono diversi i dipendenti che si interrogano sui vincoli dettati dai loro datori di lavoro.
La Confederazione si è infatti espressa più volte sul tema: il lavoro a domicilio resta raccomandato. Ma una raccomandazione non è un obbligo.
LOSANNA - «Rimane raccomandato il lavoro da casa, in accordo con il proprio datore di lavoro». Il sito web dell'UFSP è chiaro: sebbene non sia più obbligatorio da fine maggio, il telelavoro è ancora incoraggiato. Quest'estate, in molte aziende, c'era aria di libertà: chi preferiva restare a casa come prima poteva spesso farlo senza doversi giustificare.
Ma da inizio settembre, il tono è cambiato. Diverse testimonianze segnalano un certo giro di vite da parte dei capi, che spingono per riportare in ufficio i propri dipendenti, o addirittura li costringono a farlo. Le politiche, insomma variano.
Per alcuni sono autorizzati due o tre giorni di lavoro da casa alla settimana, ma a giorni fissi e con un sistema di turni fra colleghi. Talvolta il telelavoro è possibile, ma limitato e solo se giustificato e previa autorizzazione del superiore. «Ci chiediamo perché improvvisamente si è tornati a essere così inflessibili, con un obbligo totale di tornare almeno tre giorni a settimana quando, ad esempio, non conosciamo la percentuale di colleghi non vaccinati», osserva un'impiegata di una grande azienda intervistata da 20 Minutes.
In realtà, tutto dipende da come ognuno interpreta il termine “raccomandazione”. Il dizionario non aiuta coloro che non vogliono tornare in ufficio, visto che si può definire "raccomandare" come "esortare qualcuno a fare qualcosa". Anche l'UFSP sembra schierarsi dalla parte dei datori di lavoro: «Si consiglia il telelavoro. Le aziende hanno quindi il diritto di richiedere ai propri dipendenti di recarsi sul posto di lavoro», afferma il portavoce Grégoire Gogniat. «Tuttavia questo diritto non si applica quando si ha a che fare con dipendenti vulnerabili, che devono beneficiare di piani di protezione per poter lavorare in loco», aggiunge.