Morena Pedruzzi racconta la lunga strada per uscire dall'incubo dell'attentato di Marrakesh
Parla la ticinese sopravvissuta all'attentato terroristico del 28 aprile 2011. E ringrazia tutta la comunità che le è stata vicina
FAIDO - «È stato un taglio netto con tutta la mia vita di prima. La quotidianità, la normalità. È finito tutto». Quel 28 aprile del 2011, a Marrakesh finiva la storia di 17 persone, e iniziava la nuova vita di Morena Pedruzzi.
Una vita fatta di ospedali, operazioni, terapie. Un «lento ritorno alla normalità» che la sopravvissuta ticinese alla bomba del caffè Argana ha raccontato in un libro, "Risollevarsi", edizioni IET 2021, presentato oggi a Faido. È il primo incontro pubblico a cui la 37enne ha preso parte, e un pubblico numeroso si è riunito nell'aula magna delle Scuole di Faido (pienissime) e sui canali social e web che hanno trasmesso in diretta l'incontro.
Perché l'attentato terroristico che sconvolse il Ticino è stato una tragedia personale per Pedruzzi, per le tre vittime della comitiva ticinese, Corrado Mondada, Cristina Caccia e André Da Silva Costa, e le loro famiglie. Ma anche una tragedia collettiva. «È diventata una storia di tutti» anche se, dice Pedruzzi, «forse io non potrò mai capire come il Ticino l'ha vissuta, allora, perché non c'ero, ero da un'altra parte, su un altro binario».
Il binario di Pedruzzi l'ha portata dalle macerie di Marrakesh all'ospedale di Zurigo, dove è stata curata nei primi giorni e seguita nel lungo percorso post-trauma. «È stato molto difficile, sono ripartita da zero anzi da meno di zero. Sono giorni che è difficile dimenticare e che da qualche parte nella mente durano più di 24 ore, ti restano dentro» ha raccontato la 37enne, che ha voluto ringraziare pubblicamente i famigliari presenti in sala. «Tanti mi dicono che sono stata forte. La verità è che da sola avrei esaurito presto le mie energie, sono grata di avervi avuti accanto».
Pedruzzi ne ha approfittato per ringraziare tutta la comunità, «il mio datore di lavoro, ma anche i datori di lavoro dei miei famigliari, che hanno permesso loro di starmi vicino, e tutti gli amici e le associazioni e le persone che sono stati loro affianco. Non è scontato. Tante persone hanno dato loro forza e normalità, in modo che potessero venire a trovarmi in ospedale con l'energia necessaria».
Al recupero fisico si è accompagnato - forse ancora più difficile - quello psicologico. Pedruzzi porta ancora nel corpo e nella mente le cicatrici dell'esplosione. E ne parla con serenità. «Ne ho diverse, una in particolare, per fortuna non troppo visibile. Storta, malfatta. Ma non sento più il bisogno di metterla a posto, ha assunto un significato: non per forza qualcosa che si rompe è da buttare e non va bene, anzi magari è ancora più prezioso».
Prezioso come una testimonianza doverosa, e da molti attesa. «L'affetto della gente mi continua a stupire. Anche quando ero in ospedale, i miei genitori me lo dicevano: tu non puoi capire cosa sta succedendo in Ticino. Tante persone dicono di vedere in me un esempio, di ricevere energia positiva, e chiaramente mi fa molto piacere». Dopo il ritorno al lavoro di ergoterapista - «è stato importantissimo per me, non vedevo l'ora: i bambini mi hanno aiutata tanto» - il passo di condividere la propria esperienza tramite un libro è stato, forse, il culmine della terapia. «Mai avrei pensato, prima, di scrivere un libro. Non sono una scrittrice. Ma poi ho capito che i libri li scrive chi ha qualcosa da raccontare».
E di cose da raccontare Pedruzzi ne ha tante. Ma una non la racconta: la rabbia. A una domanda del pubblico, la 37enne ha ammesso di averne provata. «E tanta. Un'incazzatura tremenda, infinita». Ma con il tempo ha imparato - e forse questa è la sua lezione più importante - a trasformarla in qualcosa di positivo. «Nell'energia per tornare a vivere».