Da un doposcuola è nata un’associazione con l’obiettivo di «mostrare e raccontare chi siamo: la conoscenza riduce le distanze».
BIASCA - «Questa è la mia macchina. Come potrete immaginare, nel bagagliaio c’è nascosto un bambino rapito oggi pomeriggio». Sofia, 27 anni, sorride mentre, con l’arma dell’ironia, scherza su uno dei pregiudizi più antichi utilizzati nei confronti dei rom.
E proprio qui, fra questi palazzi, a Biasca, le prime persone della sua etnia d’origine si sono ritrovate in Ticino. Dopo anni, da un progetto di doposcuola portato avanti con i bambini, è nata l'idea, da parte sua e di altri, di creare l'associazione "Rom in Ticino: unire le storie, creare il futuro". «Ci siamo resi conto - racconta Sofia al microfono di Tio - che, per paura dei pregiudizi, molti piccoli tendono a nascondere le loro identità. Vorremmo si sentissero liberi di essere rom senza doversi vergognare. Il nostro obiettivo è mostrare e raccontare chi siamo: del resto, noi abitiamo qui da tanti anni e siamo ticinesi».
La conoscenza potrebbe essere uno strumento per abbattere le barriere ancora esistenti. «È difficile dire quanti siamo nel cantone proprio perché molti lo nascondono - aggiunge Sofia - diversi dicono d’essere albanesi, turchi o serbi. Potremmo essere tantissimi: le seconde e le terze generazioni, ormai, non lo sanno nemmeno più».
Circa 13 anni fa, nel 2010, a Galbisio, a scopo intimidatorio nei confronti di alcune famiglie nomadi italiane e francesi, un uomo aveva aperto il fuoco contro un veicolo parcheggiato nei pressi dell'accampamento. È corretto associare la parola rom al termine nomadismo? «In realtà no - risponde Sofia - Ci sono alcuni gruppi, per esempio i sinti e gli jenisch, che in alcune stagioni si muovono. Noi, però, in Ticino siamo sedentari da diverse generazioni». E fra i più anziani della comunità c’è la nonna Safija che, circondata dalle foto di famiglia, davanti alla telecamera, racconta la sua storia.
Mattia, consulente finanziario, ha il padre svizzero e la madre di origine rom: «Sono un mix - spiega - Avendo un cognome ticinese e la pelle chiara, mi sono forse evitato una buona parte di pregiudizi. Per altri, invece, è stato peggio. Però, ogni volta che dico le mie origini, vedo lo stupore nei miei interlocutori».
Il suo rapporto con la sua cultura di provenienza è stretto: «Mia mamma mi ha insegnato la lingua da piccolo, anche se ora faccio un po’ fatica a parlarla - aggiunge - Sono molto legato, in particolare, alla musica. Però, io amo la contaminazione culturale. A questo proposito, all’inaugurazione dell’associazione hanno partecipato diverse persone non rom. Si sono fatte coinvolgere: è stato bellissimo».
Rahela è un’operatrice sociale e si sente, pure lei, molto legata alle sue origini: «Sono una parte importante della mia personalità. Allo stesso tempo, mi sento ticinese e svizzera. I due aspetti stanno insieme in maniera perfetta». Fra gli aspetti preferiti, c’è di sicuro la musica del suo popolo: «La amo e sono contenta sia un tratto distintivo. Poi, grazie al fatto che i rom si sono spostati molto, è riuscita a influenzare la sonorità di altri Stati». La giovane sottolinea come l’associazione sia nata «per creare un senso vero di comunità e per affermare che esistiamo e non siamo invisibili. Inoltre, speriamo sia un incoraggiamento per chi, in questo momento, preferisce tenere “nascosta” la propria origine».
Nonostante i numeri siano alti in Ticino, molti rom fanno fatica a identificarsi come tali per paura di incappare nei pregiudizi. «Si dovrebbe fare un lavoro di prevenzione su questo aspetto - conclude Rahela - e su quello del razzismo. Sarebbe bello che ognuno riuscisse ad affermare la propria identità».