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ARZONon essere. La condizione delle donne e delle donne transessuali in carcere

14.08.23 - 06:30
Intervista ad Alessandro Sesti e Cecilia Di Donato, creatori dello spettacolo "House we left" in scena al Festival di Narrazione di Arzo
Nicolò Degl'Incerti Tocci
Non essere. La condizione delle donne e delle donne transessuali in carcere
Intervista ad Alessandro Sesti e Cecilia Di Donato, creatori dello spettacolo "House we left" in scena al Festival di Narrazione di Arzo

ARZO - Una casa che si lascia e che, può essere, non si ritrovi mai più. È il tema faro di "House we left", spettacolo teatrale che vede in scena la vita di donne e donne transessuali dietro le sbarre del carcere e che andrà in scena il prossimo 18 agosto nella cornice del Festival di Narrazione di Arzo.

L'opera nasce da uno studio, quello di Cecilia Di Donato, nelle carceri e sul palco, e quello di Alessandro Sesti, che ha curato drammaturgia e regia, e che si incentra sui motivi dietro la "cancellazione" dalla società di coloro che vivono in un luogo che non possono chiamare casa.

Di chi parla House we left?
Alessandro: «In House we left si parla di donne e donne transessuali in carcere. Di cosa prova una libera cittadina come Cecilia, nell’entrare e uscire da un carcere sapendo che la sua attività rende la permanenza forzata delle detenute meno pesante, anche solo per qualche ora. Di sfumature, di quegli argomenti che necessitano ragionamenti senza giudizio o pregiudizio. Lo spettacolo affronta le vite delle recluse, le colpe a causa delle quali ora stanno scontando la pena in un luogo che dovrebbe rieducarle e prepararle al reinserimento in società».

Come riassumerebbe lo spettacolo in una sola parola?
Alessandro: «Fragilità. Parla di quella fragilità che proviamo quotidianamente sapendo che le nostre certezze potrebbero crollare in un attimo, di quella fragilità che sta negli occhi e nella bocca di una donna poco istruita e cresciuta a botte e dinamiche mafiose, parla di una donna libera, Cecilia, che cerca da anni di dare il suo contributo per portare del buono in un luogo dove questa parola sembra una bestemmia. Cecilia che è dentro, ma può andare anche fuori, ma a differenza di molti altri ha avuto l’occasione di poter vedere da vicino queste donne, ascoltare le loro storie e ora cerca di restituire al pubblico un'informazione fondamentale: le persone in carcere sono ancora delle persone, colpevoli di un reato si, ma pur sempre esseri umani meritevoli di dignità. I detenuti sono persone che hanno sbagliato, non sono i loro reati».

Nelle carceri, scrivete, si vive ma non si è. A cosa è dovuto?
Alessandro: «Scontare la pena in un luogo dove manca acqua calda in inverno, dove dai più vieni trattato come un essere senza dignità, dove se sei transessuale l’appellativo “finocchio” è quanto di più delicato tu possa ricevere, dove devi stare attento a cosa dici altrimenti chissà ti cosa accade... Questa la chiamereste ancora vita? Pensare di venire strappati via dalla propria casa, da tutti gli affetti e le abitudini, dai propri figli, da tutto ciò che davi per scontato, è ancora vita? Sia chiaro, nessuno pensa che in carcere ci vadano le persone innocenti. Se vieni portato in galera è a causa di un reato commesso e di una condanna avvenuta, pertanto è giusto che essa venga scontata, ma ciò non significa negare i diritti di base dell’essere umano, altrimenti con grande probabilità genereremo nel detenuto una reazione opposta a quella per cui, in realtà, nasce il sistema carcerario».

E chi vive libero può contribuire a questo problema?
Alessandro: «Tendiamo molto spesso, per essere in pace con la nostra coscienza, a immaginare che in galera ci siano solo assassini, pedofili e mostri simili; lo facciamo per poterci dire “giusto che marcisca là dentro, gli sta bene che non abbia l’acqua calda, deve soffrire per il male che ha fatto”, come a voler alimentare un istinto di vendetta verso un male causato dal colpevole in questione. Eppure lo stesso pensiero così netto non sembra apparire di fronte a quei soggetti che rappresentano il popolo che raggirano il fisco e con giochi economici e politici rovinano vite su vite. Soggetti che meriterebbero il carcere tanto quanto un assassino, ma a questo siamo ormai assuefatti come se stessimo leggendo una sceneggiatura scritta male anziché vivere la vita reale. Dobbiamo però pensare che in carcere ci finiscano persone costrette alla prostituzione o allo spaccio raggirate dai propri sfruttatori, persone che compiono reati minori per povertà, ignoranza o fame. In questo caso, tutto cambia, non c’è più solo il bianco e nero, la questione si riempie di sfumature e noi dobbiamo essere in grado di affrontarne una alla volta».

Come si potrebbe rimediare alla "cancellazione" delle persone detenute dalla società?
Alessandro: «Il primo concetto che mi viene alla mente è la sensibilizzazione: rispetto alla detenzione, un italiano medio sa poco o nulla, questo perché siamo vittime di un Paese in cui la libertà di stampa è una barzelletta e veniamo bombardati da fatti di cronaca fintanto che essi sono sensazionalismi, fin quando fanno notizia, ma a seguito di essi non sappiamo nulla. Non sappiamo come funziona la detenzione per la coppia di fidanzati che ha massacrato la propria famiglia, così come non lo sappiamo del povero signore anziano che viene arrestato perché ha rubato una mela al supermercato. Avere dei programmi di sensibilizzazione scolastica sarebbe già un primo passo. Sapere come funziona il sistema carcerario in Italia ci permetterebbe di poter esprimere un’opinione basata su fatti e dati comprovati. Al momento credo che ci si esprima a riguardo al pari di una chiacchiera da bar fra il calcio e i reality show. Credo anche che sapere “cosa ti aspetta” al momento della carcerazione potrebbe spingere i giovani a pensarci una volta in più prima di rischiare di essere arrestati. Un’altra cosa che potrebbe essere fatta è potenziare quelle realtà virtuose che aiutano i detenuti a non perdere contatto con la realtà, con la vita che fuori dal carcere va avanti senza di loro. Penso a progetti di teatro in carcere come quelli curati dal Centro teatrale MaMiMò, come Armando Punzo e la sua Compagnia della Fortezza, Teatro oltre i limiti della compagnia Petra, questi e chissà quante altre attività così virtuose in Italia faticano a trovare il giusto supporto».

Esiste un modello di detenzione perfetto?
Cecilia: «Non so se esista un modello di detenzione perfetto ma so che ci sono alcuni aspetti della carcerazione che sicuramente possono migliorare la vita di coloro che, non dimentichiamolo, sono privati della loro libertà personale che credo sia la privazione più grande per un essere umano. In primo luogo gli spazi. Le carceri sono costruite per ricordare in ogni momento che si è prigionieri. Non soltanto le sbarre ma anche le celle e tutti i luoghi in cui i detenuti passano il loro tempo sono luoghi perlopiù angusti, scuri e opprimenti. Migliorare la qualità degli spazi e la loro capacità di accoglienza può certamente essere un aiuto a rendere il soggiorno detentivo meno angosciante».

Si potrebbe fare qualcosa di più anche a livello umano?
Cecilia: «Credo che sia fondamentale creare dei momenti di socialità attraverso il teatro, le arti, la cultura, le attività formative in generale in modo da coinvolgere i detenuti in processi artistici culturali lavorativi sani, aumentare la loro consapevolezza, accrescere la loro proprietà di linguaggio e permettergli di confrontarsi con persone che dall’esterno possono offrire altri punti di vista. Spesso a loro mancano anche solo le parole per esprimere fino in fondo i loro pensieri. Credo che sia fondamentale la figura dello psicologo in carcere - spesso sono pochissimi per troppi detenuti - per poter rielaborare la condanna e comprendere appieno la pena e il suo senso, come una fase della vita che ha avuto una ragione d’essere ma dalla quale ci si può affrancare cambiando le abitudini malsane, i pensieri distruttivi e tutto quello che ha portato i detenuti a delinquere. Per finire penso che sia molto importante ricordare che le carceri fanno parte della nostra comunità e quindi ritengo imprescindibile che la società che vive, lavora e opera all’esterno delle carceri entri in un qualche modo nelle carceri stesse e che detenuti si sentano comunque parte di una comunità e non semplicemente ai margini del mondo».

Qual è l'aspetto più complesso da affrontare per un/a detenuto/a appena fuori dal carcere?
Cecilia: «La condanna spesso arriva come un muro che ferma una corsa ad alta velocità. Impone uno stop alla vita precedente nel bene ma anche nel male. Se la pena è correttamente vissuta può certamente dare l’opportunità al detenuto di immaginarsi in una nuova vita una volta scontata la condanna. La fatica più grande, credo, è che spesso per immaginare una nuova vita bisogna tagliare i ponti con il passato, con le conoscenze pregresse, alle volte anche con la famiglia stessa. Ritengo per questo che una delle fatiche più grandi di chi ha finito di scontare la propria pena sia quello di reinserirsi nella società».

Perché?
Cecilia: «Si è come un neonato che viene di nuovo al mondo ma spesso senza una rete disposta ad accoglierlo. Questo fa sì che molte volte si ritorni nel contesto precedente con il rischio di ricominciare a delinquere. Credo fortemente che se i percorsi di reinserimento nella società fossero davvero efficaci si avrebbe un enorme beneficio per il singolo ma anche per la società intera. Immaginate che i vostri occhi non vedano un orizzonte illimitato per tre, quattro, cinque anni o anche di più. Quando si esce anche lo spazio fa paura! Credo che le persone vadano accompagnate nel loro nuovo ingresso nel mondo, che non vadano lasciate sole che gli vada offerta un’opportunità differente da quello che la vita fino a quel momento gli ha sempre prospettato e che siano aiutate a superare lo stigma di essere stati detenuti!».

Che cosa vuol dire finire in carcere nella Svizzera e nell'Europa di oggi per una donna transgender?
Cecilia: «Non posso dire, perché non ho un’esperienza sufficiente, che cosa voglia dire essere detenute e donne transgender in Europa. Posso però certamente raccontare che cosa vuol dire esserlo in Italia. Le donne transgender detenute sono una minoranza e come tutte le minoranze per loro è più difficile che per gli altri detenuti ottenere benefici o possibilità. Spesso i reparti si trasformano di nuovo nella strada da cui provengono, le relazioni con le altre detenute transgender sono complicate e dettate dalle stesse regole crudeli che governano il mondo in cui vivevano. Molte di loro entrano tossico-dipendenti e quindi all’interno del carcere cominciano il loro percorso di disintossicazione molto faticoso ed estremamente complicato. Quello che per i reparti comuni è più facile ottenere come percorsi di studio o attività culturali per loro non è così scontato. Sono una minoranza in un contesto in cui tutto è complicato quindi spesso vengono lasciate per ultime. Non possono fare attività con gli uomini e nemmeno con le donne, sono perennemente sospese a metà. Inoltre spesso provengono da altri Paesi e quindi non hanno una rete familiare che possa supportarle, anche economicamente. Non hanno amici né relazioni altre all’esterno, hanno solo le conoscenze della vita che hanno sempre condotto. Si sentono donne ma sono biologicamente uomini e quindi hanno assistenti carcerari di genere maschile perché in Italia gli assistenti vengono assegnati a seconda del sesso biologico quindi chi supervisiona il reparto è un uomo che spesso non riesce a comprendere l’estrema complessità del loro essere. È molto complicato per loro inoltre continuare il percorso di transizione e ormonale che hanno cominciato all’esterno del carcere, avrebbero bisogno di un sostegno psicologico molto più presente e di un accompagnamento mirato che possa rispondere alle loro necessità».

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COMMENTI
 

UtenteTio 1 anno fa su tio
Se sono in carcere ci sarà un perché.

Frankeat 1 anno fa su tio
Risposta a UtenteTio
Ecco il commento di chi non ha letto l'articolo, perché se l'avesse fatto non avrebbe scritto una simile banalità.
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