Sabato Anna Maria Selini presenterà il suo documentario "Ritorno in apnea" nell''ambito del Film Festival Diritti Umani.
È stato «un viaggio emotivo molto forte», ci spiega, sia come professionista che a livello personale.
ROMA - La tragedia dei bergamaschi all'interno di quella di una nazione, l'Italia. Lo racconta "Ritorno in apnea", documentario di Anna Maria Selini che sarà proiettato in anteprima assoluta sabato 17 ottobre alle 17.45 al Cinema Iride di Lugano, nell'ambito del Film Festival Diritti Umani Lugano.
Giornalista e regista, Selini vive a Roma ma è originaria di Bergamo. Ciò che è successo con tragica ferocia nella sua terra di origine - secondo uno studio dell'Istat e dell'Istituto superiore di sanità i decessi tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo sono stati del 568% sopra la media dello stesso periodo dei cinque anni precedenti, con percentuali altissime non solo in Val Seriana ma anche in Val Brembana - l'ha colpita particolarmente, sia come reporter che come persona.
Quando ha deciso di partire per raccontare quello che stava accadendo nella Bergamasca?
«La notte in cui è diventata virale l'immagine dei mezzi militari che portavano via le bare. Lì sono un po' crollata, ammetto. Erano settimane che ricevevo notizie allarmanti dai parenti e amici più cari a Bergamo. Mi turbava molto sentire come mio fratello, solitamente freddo e razionale, fosse terrorizzato. Una carissima amica, in prima linea in qualità di farmacista, non aveva voglia di parlare e aveva paura. Tutti mi dicevano di non tornare: avevo in realtà già pensato di partire, dopo aver raccolto tutti quei segnali d'allarme, ma quella foto è stata la molla decisiva».
Quell'immagine ha poi fatto il giro del mondo: perché ha colpito così tanto?
«È stata potentissima e ha fatto diventare evidente, tangibile qualcosa che era invisibile. Ha segnato il punto di non ritorno, con il quale il pianeta ha dovuto fare i conti con quanto stava succedendo a Bergamo - in realtà già da settimane».
Come percepiva, da Roma, quello che stava accadendo in Lombardia?
«Con grande contrasto. Qui l'allarme, a parte il primo caso dei turisti cinesi allo Spallanzani, non era affatto elevato. Non si aveva per nulla la percezione di quello che stava succedendo e Bergamo era veramente lontana, in quel momento».
Come si è arrivati al titolo "Ritorno in apnea"?
«È il mio tornare a casa, che è stato al contempo un viaggio emotivo molto forte. Non solo da giornalista: l'ho fatto da bergamasca che, come tutti gli altri, conosceva qualcuno che è stato vittima o sfiorato dal virus».
Quanto è stato difficile raccontare questa tragica vicenda?
«C'è, credo, il rigore della documentazione ma anche un'emotività di fondo che nei miei precedenti lavori non c'era. È uscita piano piano, anche grazie al produttore del film Alberto Valtellina. Ero partita per fare un reportage strettamente giornalistico ed è stato lui a dirmi di porre l'accento sugli aspetti che mi toccavano così da vicino. Strada facendo è stato inevitabile farlo».
Girare questo film l'ha cambiata?
«Non lo so. Sicuramente è stata un'esperienza molto forte, che è andata al di là del mio essere solo giornalista».
Quali sono le storie personali che ha incluso nel documentario?
«La morte del padre di un mio caro amico e quella del padre di una ragazza. Oltre alla vicenda di mio fratello, che era stato contagiato. Per me non è stato facile: t'insegnano quando diventi giornalista a mantenere la giusta distanza e oggettività. Violare questo principio è stato per me difficile ma poi ho capito che era indispensabile. Quello era il mio racconto del coronavirus ed era giusto farlo così».
Com'è andata a suo fratello?
«È stato fortunato: è stato ricoverato in ospedale - a differenza di molti che non hanno potuto andarci - e ha preso il Covid-19 in forma tutto sommato lieve. È stato dieci giorni in ospedale, è stato male ma poi ha potuto tornare a casa. Tutta un'altra storia rispetto alle tante altre che abbiamo sentito».
Che Bergamo ha trovato?
«Una città che ha vissuto un grandissimo dolore. Ci sono stati più morti che durante la Seconda guerra mondiale e se tu parli con un bergamasco scopri che non c'è una famiglia che non sia stata toccata. Mi sono soffermata molto sul trauma più che sulla cronaca, le inchieste e le vicissitudini politiche: mi sono chiesta da subito come le persone avrebbero potuto superarlo, essendo così grande. Credo che una ferita così non si possa semplicemente lasciarla cicatrizzare: va rielaborata. C'è la necessità di riconoscere questo trauma e di lavorarci».
Come stanno reagendo i bergamaschi?
«Sono famosi per essere molto operosi, grandi lavoratori e un po', se vogliamo, poco inclini a fermarsi e riflettere. Uno degli psicologi che ho intervistato mi ha confermato che sono le classiche persone che rispondono col fare, rimboccandosi le maniche. Lo slogan di quelle settimane era "Mola mia", non mollare, che va benissimo ed è una risorsa meravigliosa. Ma quando avvengono traumi così grandi bisogna prendersi un momento per rielaborare. È stato fatto moltissimo: le istituzioni hanno messo a disposizione gratuitamente dei consulti psicologici, eccetera. È un lavoro che però va portato avanti. Come sappiamo la sindrome da stress post-traumatico si presenta a sei mesi dal trauma».
Cosa l'ha colpita particolarmente in quelle settimane?
«Forse sentirsi dire da medici, infermieri e operatori sanitari - tutte categorie abituate alla morte - frasi come: "Io mi sono sentito inutile, mi sono sentito incapace di aiutare le persone". Anche le persone più allenate a reagire si sono sentite disorientate».
È una sensazione che ha provato anche lei?
«Sì, ho avuto un attimo nel quale mi sono chiesta: "Ma riesco a raccontarla questa cosa, a farla comprendere?". Come se fosse troppo grande anche per me, da capire e poi da trasmettere agli altri».
Un momento che le è rimasto nella memoria?
«La protagonista di una delle due storie del documentario sembrava non rendersi conto della morte del padre. Quando tu lo vedi uscire in barella e ti restituiscono un'urna non riesci a realizzare cosa è successo tra una cosa e l'altra. Ti mancano le fasi dell'elaborazione del lutto. Dopo mesi, mentre ero ancora lì, c'è stato il funerale di quest'uomo. Una cerimonia stranissima, senza bara visto che la tumulazione era già avvenuta e senza corteo, con le persone che arrivavano al cimitero in ordine sparso. Mi sembrava d'invadere qualcosa di troppo privato, a essere lì, invece lei mi ha ringraziato. Voleva che ci fossi, mi ha detto, perché è stato in un certo senso il suo modo di chiudere il cerchio. Per me è stato importante, ha dato un senso a questo lavoro».
Bergamo, la cronologia del dramma
23 febbraio - L'ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano Lombardo venne chiuso dopo l'accertamento della positività di alcuni pazienti e riaperto dopo qualche ora. La magistratura sta indagando su cosa successe quella domenica.
24 febbraio - Il giorno della notizia del primo morto in provincia per Covid-19: un pensionato di Villa Serio, deceduto all'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
2 marzo - Primo balzo nel numero dei positivi, a quota 508. L'Italia scoprì che Bergamo aveva un enorme problema contagi.
5 marzo - 250 tra poliziotti, carabinieri e militari della Guardia di Finanza arrivano in provincia di Bergamo, pronti a istituire la "zona rossa" ad Alzano Lombardo e Nembro. Non se ne fece nulla: l'ordine non arrivò mai.
14 marzo - L'Eco di Bergamo pubblica undici pagine di necrologi (contro le tre abituali), per quella che la stampa ha chiamato "la Spoon River di Bergamo". L'impatto visivo delle morti per Covid-19 si mostra in tutta la sua drammaticità.
18 marzo - Il macabro corteo dei camion dell'Esercito sfila per le strade di Bergamo: i mezzi militari tras portano le bare dei defunti della provincia verso i forni crematori di altre province, visto che la struttura cittadina (pur lavorando 24 ore su 24) non riusciva a stare al passo con l'afflusso e la camera mortuaria non aveva più spazi disponibili. Nei giorni successivi Bergamo, con questa immagine, finisce sui giornali di tutto il mondo.