Nervi a fior di pelle in Lombardia sulla nuova "clausura", fra il «si poteva fare di più» e chi non può lavorare
MILANO - In Italia è di nuovo lockdown, particolarmente duro nelle Regioni dichiarate zone rosse, Lombardia in testa, ma con profonde differenze rispetto a quello della scorsa primavera e non tanto per gli aspetti tecnici (alcune scuole restano aperte così come molte attività commerciali, la produzione non si è fermata) quanto per come è vissuto dalla gente, da chi lavora e dai medici.
Oggi più che il virus spaventa il confinamento in casa. A marzo-aprile erano state la sorpresa, l’assoluta novità della situazione e l’impreparazione a travolgere e stravolgere alcuni settori: in quello sanitario c’è stata la catastrofe mentre nel quotidiano qualche epifania si era verificata; apprezzate per la prima volta la bellezza di ritmi lenti, la possibilità di dedicarsi agli hobbies, alla cucina, al giardinaggio, alla lettura, alle relazioni.
Questa volta invece è il rancore a prevalere: risentimento, odio e rancore si riversano ovunque, sui social e nelle piazze, nei bar e dai parrucchieri (oggi aperti a differenza degli estetisti). Sotto accusa i governi nazionale e locali, che avevano il potere di rivoluzionare alcuni settori sanitari e produttivi, come suggerito, invano, dalla società civile. Non si è fatto nulla per evitare il verificarsi di un nuovo, previsto, disastro.
Qualche accorgimento organizzativo è subito ripartito, come i servizi di spesa e farmaci a domicilio, o le consegne a casa per i ristoratori oggi impossibilitati ad aprire. Ma il grosso lavoro di prevenzione e di rafforzamento è mancato e la gente non lo accetta: le proteste, qualche volta violente, dilagano in tutti i settori anche perché, dopo mesi di crisi, le tasche sono vuote e ai sussidi in pochi credono ancora.