Il processo a Derek Chauvin, l'ex agente responsabile della morte di George Floyd, è entrato nel vivo
La seconda giornata del processo ha raccolto le testimonianze di chi era presente e ha assistito, impotente, agli ultimi minuti di vita di Floyd.
MINNEAPOLIS - «Ho avuto paura di Chauvin». La voce che ha pronunciato queste parole, nell'aula al 18esimo piano del palazzo di giustizia della Contea di Hennepin, appartiene a una giovane studentessa - tutt'oggi minorenne - che la sera del 25 maggio dello scorso anno ha assistito senza poter fare nulla alla morte di George Floyd.
Quella paura è durata ben oltre quei terribili nove minuti e 29 secondi - tanto è stato il tempo che l'ex agente della polizia di Minneapolis ha trascorso tenendo il proprio ginocchio premuto sul collo dell'uomo che si trovava al suolo in manette e che pregava, inutilmente, ripetendo più volte «non riesco a respirare» - di cui tutto il mondo è stato poi testimone. Una paura che non dovrebbe avere posto in una società moderna. Ma che, tuttavia, è stata condivisa tra le giovani testimoni e le ha di fatto rese vittime di quella stessa violenza ingiustificata.
«Quando guardo George Floyd, vedo mio padre»
Nulla hanno potuto fare per salvarlo. Nulla hanno potuto fare per soccorrerlo, o perlomeno tentare. In risposta ai loro appelli, Derek Chauvin ha estratto lo spray lacrimogeno e ha iniziato ad agitarlo, ha ricordato la giovane. E dalle sue parole, come da quelle pronunciate delle altre testimoni durante la seconda giornata del processo, sembra chiaro che quel momento non potrà essere facilmente rimosso dalle loro memorie. Darnella Frazier, la ragazza che ha catturato in video gli ultimi minuti di vita di Floyd, ha ammesso di essersi ritrovata più volte a fare i conti con il proprio senso di colpa. «Ho trascorso notti intere restando sveglia e chiedendo scusa a George Floyd per non aver fatto di più e non aver agito direttamente per salvare la sua vita». Non riuscendo a trattenere le lacrime, la giovane ha aggiunto di aver visto in Floyd i suoi famigliari. «Quando guardo George Floyd è come se guardassi mio padre. O i miei fratelli. O miei cugini, o i miei zii, perché sono tutti neri. Mio padre è nero. Mio fratello è nero. I miei amici sono neri. E quando vedo quel momento mi rendo conto che al suo posto ci sarebbe potuto essere uno di loro».
Gli occhi dell'America (e non solo) su Minneapolis
George Floyd è morto per asfissia e sul referto autoptico la causa indicata lascia spazio a poche interpretazioni: omicidio, si legge. Chauvin è accusato dei reati di omicidio involontario di secondo grado, di omicidio colposo e di omicidio di terzo grado. Ma alla sbarra, oltre all'ex veterano del dipartimento di Minneapolis, c'è tutto un sistema di polizia che ha nel proprio dna una componente di razzismo e di ricorso eccessivo alla violenza, che è stata incapace di cambiare pelle come sta invece facendo il resto della società americana da decenni. E si spiega quindi perché questo processo sia così importante per la storia degli Stati Uniti e perché gli occhi di una nazione intera sono in questi giorni rivolti tutti su Minneapolis.