La produzione delle criptovalute, secondo Greepeace Usa, sarebbe particolarmente energivora e poco eco-sostenibile.
LONDRA - Sembra riprendere quota l'interesse sul Bitcoin, che sfrutta le turbolenze e i timori sulle banche americane e torna quindi a proporsi in parte come bene rifugio nonostante la sua volatilità, ieri si apprezzava del 7% a 30'007 dollari.
Il Bitcoin è solo una delle criptovalute in circolazione. Si tratta di una forma decentralizzata e parallela valutaria che viene scambiata su piattaforme "blockchain". Un sistema utilizzato non solo nelle speculazioni ma anche nell'economia reale per l'acquisto di beni o servizi.
Caratteristiche, quelle delle criptovalute, che le pongono da tempo non solo sotto la lente delle autorità di controllo e vigilanza ma anche di quella degli ambientalisti, che vogliono sincerarsi che le cripto non costituiscano un rischio ambientale.
Soto accusa sono il "mining "di Bitcoin, meccanismo per l’emissione di nuove monete, e i "miners", cioè coloro che utilizzano potenti apparecchiature informatiche per competere, diventare validatori di nuovi blocchi sulla blockchain di Bitcoin, e quindi intascare sia le commissioni di transazione di rete, sia le monete appena coniate. Sostanzialmente i miners verificano la validità delle nuove transazioni evitando che i partecipanti non hackerino il sistema, spendendo la stessa moneta due volte. Il tutto, come detto, dipende non solo dalla qualità del loro hardware ma anche dalla rapidità con cui si è in grado di risolvere questi meccanismi di consenso.
Ora, secondo Greenpeace Usa tutto questo procedimento comporta il consumo di grandi quantità di elettricità, che spesso viene prodotta bruciando combustibili fossili, emettendo anidride carbonica e altri gas serra che stanno riscaldando il pianeta. In particolare, un rapporto (Revisiting Bitcoin's Carbon Footprint), condotto da studiosi di clima ed economia in tutta Europa e ripreso dal Guardian, evidenzia che «l'estrazione di Bitcoin potrebbe essere responsabile di 65,4 megatonnellate di CO 2 all'anno, paragonabile alle emissioni a livello nazionale prodotte in Grecia nel 2019 (56,6 megatonnellate)».
Di tutto questo si sta occupando - come detto - Greenpeace Usa, che ha dedicato all'inchiesta una divisione ad hoc e il cui direttore, Rolf Skar, ha contattato un istituto finanziario che ha deciso di aprire la propria piattaforma cripto. Il tutto per sollecitare l’investimento di risorse al fine di affrontare il problema del mining di Bitcoin a livello globale.
Per farlo gli ambientalisti chiedono di cambiare il codice informatico e la modalità di produzione delle valute digitali con uno nuovo, meno energivoro e che non richieda l'attuale velocità necessaria nel processo di produzione valutaria. Per farlo gli attivisti si stanno rivolgendo alle società di servizi finanziari sensibilizzandoli nell'intraprendere un percorso di autoresponsabilizzazione che generi, secondo Grenpeace Usa, «una vittoria per Bitcoin, per il clima e per la comunità».
Al momento non si sono ottenuti grandi risultati perché nonostante tutti «riconoscano che (il Bitcoin) è dannoso per l'ambiente - ha detto al quotidiano londinese Hanna Halaburda, professoressa presso la Stern School of Business della NYU - qualsiasi grande modifica al protocollo richiede che tutti i minatori siano d'accordo», cosa che non è al momento avvenuta. Aprendo però poi a una speranza: «Molte società di "mining" di Bitcoin hanno chiuso contratti con compagnie di energia rinnovabili», di modo che in caso di eccesso di energia disponibile, la stessa possa essere convogliata nella produzione delle cripto, generando ricchezza da dividere.