La tradizione dell'Hip Hop "rimasterizzata" vive in "È ancora autunno" dei rapper Dok e Lazy Cat
RIVA SAN VITALE - Quando si parla di Hip Hop il primo sguardo, inevitabilmente, è sempre rivolto agli Stati Uniti. La culla originale di una cultura che è ormai di casa in quasi tutto il mondo resta tutt'oggi la fonte principale di tutti gli input che, propagandosi, ne segnano l'evoluzione in modo sempre più rapido.
L'Hip Hop muta, si adatta ai tempi, ma non dimentica le sue radici e, anche alle nostre latitudini, il suono più tradizionale non smette mai di pulsare. E di questo parliamo con i rapper Dok e Lazy Cat, che hanno da poco pubblicato un nuovo album a quattro mani.
Partiamo dal titolo. “È ancora autunno”... Vi va di spiegarcelo?
«Vuole essere un rimando nostalgico. Il mondo, la società, la musica... cambiano. Tutto cambia, non necessariamente in meglio. All'autunno segue l'inverno, la stagione più fredda e "morta" dell'anno. Così come l'autunno trascina con sé gli ultimi sprizzi di vitalità dell'estate, la nostra musica vuole fare lo stesso; cercare di portare devozione a una cultura che ci ha dato e insegnato tanto. La nostra musica sopravvive come alcune foglie sugli alberi nel periodo autunnale».
Come è nato questo nuovo album?
«Diciamo un po' per caso. Inizialmente volevamo fare un singolo, poi i singoli sono diventati due, e così via. Alla fine, dopo due settimane in cui nella chat di WhatsApp giravano una miriade di beats e proposte varie, siamo giunti alla decisione che sarebbe stato molto più semplice e appagante fare un album».
L’ultima volta che abbiamo parlato, si discuteva del mondo attraverso un oblò. Oggi cosa si vede affacciandosi di nuovo a quell’oblò?
«Le immagini sono rimaste pressoché invariate, anche se bisogna ammettere che una piccola mutazione c’è sempre. “È ancora autunno” segue sì la scia nostalgica del precedente album, ma "prendendosi qualcosa in più”, non limitandosi a osservare, ma bensì affrontando faccia a faccia le attuali tendenze musicali che vengono accomunate all’Hip Hop. Diciamo che il punto di vista resta simile, ma l’esposizione e il modo di rapportarsi al genere hanno qui maggiore coraggio».
Dalla scrittura di molti pezzi - e mi vengono subito in mente “Soul Calibur”, “Tempi Cupi”, ma anche “Non c’è posto” - emerge un grande amore per quella che è l’essenza dell’Hip Hop. Lo vivete come un hobby, ma quanto tempo “occupa” nelle vostre giornate la musica?
«Materialmente, alcune ore al giorno. Ma parlando di tempo in senso generale allora diciamo 24 ore su 24. Per noi essere appassionati alla musica significa anche scovarla in ogni piccolo momento della giornata. Per esempio quando stai guardando un film e senti una canzone che sarebbe perfetta da campionare e “cucinare” con il tuo MPC, oppure quando senti passare in radio un pezzo che non conoscevi e ti cattura al punto che finisci per averlo in loop per una settimana. Ecco, per noi la musica è ancora essere un po’ ossessionati da momenti come questi, che pian piano entrano a far parte della propria vita. In un certo senso, è la musica a scegliere quanto tempo ritagliarsi nelle nostre vite... E siamo contenti che sia tanto!»
Guardiamo un attimo agli ultimi dodici mesi: niente concerti, niente festival, locali chiusi. Questa battuta d’arresto forzata può, secondo voi, aver riportato al centro alcuni elementi che forse l’Hip Hop (ai piani più alti) stava dimenticando?
«Chiusure e lockdown hanno sicuramente creato un vuoto. Tuttavia, crediamo che molti artisti abbiano colmato questo vuoto grazie a internet. Siti come Twitch o applicazioni sulla scia di Clubhouse hanno permesso - e lo stanno facendo tuttora - a molti artisti di mantenere la “connessione” con i loro fan, interagendo in maniera differente. Diverso da un classico concerto ma sempre molto appagante. Personalmente abbiamo notato un leggero aumento d’interesse per l’Hip Hop più classico a livello globale, anche nel nostro piccolo. Tuttavia, le sonorità più moderne rimangono comunque al centro del mercato musicale».
Tornando all'album... Si respira un sound bello omogeneo. L’impressione è quella di un sapore tradizionale su una grana più moderna. Un po’ come riguardarsi un classico del cinema in versione rimasterizzata. Come avete scelto le sonorità?
«Le produzioni sono state curate da Dok, campionando vinili e tapes, "armato" di un Akai MPC2500 e un Akai S900. Le sonorità dell’album vogliono rifarsi a quelle dell’Hip Hop italiano del decennio che va dal 1995 al 2005. L'idea del “classico rimasterizzato”... troviamo sia molto azzeccata. In un certo senso permette di “ridare vita” a qualcosa che altrimenti rischierebbe di essere dimenticato. Noi proponiamo un genere che, per usare un eufemismo, non va per la maggiore, e pensiamo che una barra di Lazy Cat ben riassuma uno dei concetti chiave del disco: “Senza pubblico, ma pubblico barre e sono felice". A noi basta questo».
Concludo con una domanda di rito: dovendo sceglierne uno, qual è il pezzo di cui andate più fieri?
«Uno in particolare? Penso sia “Soul Calibur”. Non si tratta del brano più profondo e rappresentativo dell’album, ma crediamo che abbia un beat che “colpisce duro” e delle punchlines taglienti. Senza dimenticare i poi massicci scratch di DJ Mardoch».