Davide Van De Sfroos torna a Lugano il 13 aprile con una tappa del "Maader Tour"
LUGANO - Il 13 aprile Davide Van De Sfroos tornerà al Palazzo dei Congressi di Lugano per una tappa del suo Maader Tour, che porta in giro per l'Italia e la Svizzera (ci sarà Poschiavo il 7 maggio e Zurigo in data da stabilirsi) i brani del disco "Maader Folk" dello scorso anno e le hit della sua carriera. Con il cantautore laghée - uno dei protagonisti del concerto Musica per la Pace che si è tenuto a Como il 5 aprile, nel corso del quale ha eseguito una versione speciale della sua "Sciuur capitan" per voce, chitarra e il violino di Davide Alogna - è stato inevitabile partire dal conflitto in Ucraina.
È proprio il caso di dire, per chi crede: "Oh Lord, vaarda giò"...
«Sì, assolutamente. Poi non importa in cosa credi. Ci stavamo appena riprendendo da un paio di anni dove la paura, la malattia, la pandemia, la clausura ci hanno messo a durissima prova e si pensava di poter ripartire sfoggiando l'anima che per tanto tempo è rimasta chiusa. Anima che è stata "bombardata" da questa guerra assurda, provocata in modo assurdo. Si sentono frasi inquietanti: si parla di nucleare come se fossero noccioline. Anche un contadino delle zone più remote dell'Ucraina oggi è in grado di fare un video e si vedono cose che non vorremmo vedere».
L'artista si sente chiamato a intervenire, in una situazione del genere?
«È difficile rimanere a mente leggera. Noi che, con fatica, siamo tornati su di un palco, quando abbiamo il teatro pieno davanti a noi non possiamo far finta di niente. Anche se il nostro compito è quello di usare altri proiettili: la canzone, la musica, l'arte, la poesia, l'emozione. Sono gli unici che vorresti che arrivassero dritti al cuore. Creiamo una sorta di scudo emotivo per tenere lontane le vibrazioni negative di quella cosa chiamata guerra. Il contrario di bomba, di esplosione e di sparo non è il silenzio, ma è la musica che ti fa riflettere o ti emoziona».
Riascoltando "Agata" mi è venuto da pensare alle famiglie ucraine, con la differenza che, rispetto a ciò che lei canta, questa volta sono gli uomini che restano e le donne che se ne vanno...
«"Agata", che è una delle canzoni più recenti scritte per "Maader Folk", è sovrapponibile a tutte le situazioni di attesa: non importa che sia lei o lui ad andare via, parla delle persone divise dalla necessità, da una migrazione, dalla guerra. Devono attendere non solo il ritorno della persona amata, ma che torni com'era. Qualcuno può rientrare cambiato, ferito, mutilato o non tornare affatto. Bisogna quindi cimentarsi nel rimanere il più saldi possibile e poi, nel momento del ritorno, si vorrebbe essere quello che si è. Sentendo le persone che cantano "Agata" nel corso di questo tour è chiaro che le persone hanno legato questa vicenda a quella dell'Ucraina».
Ha raccontato quella che, purtroppo, è una storia vecchia come il mondo...
«Sì, non è certo una profezia. Sono cose che sono sempre successe e purtroppo succederanno sempre. La cosa più dolorosa, per come la vedo io, è che la morte è una cosa sacra. Qualcosa con la quale non si dovrebbe interferire. Invece noi prendiamo la morte, dirottiamo la sua falce, la portiamo dove vogliamo noi, bombardando e massacrando. Questa è la più grande sciagura del nostro universo, l'antitesi del vivere. Noi accusiamo tanto la morte ma lei viene semplicemente a punire i disastri che facciamo».
Passerei, se mi permette, ad argomenti più lieti...
«Volentieri! (ride, ndr)».
In "Stella Bugiarda" c'è un riferimento alla dimensione del concerto, con un'esperienza che è del tutto simile a quella che vivono i suoi fan... Magari senza le tasche piene di monetine perché oggi c'è lo smartphone, ma non cambia niente.
«La dimensione del concerto è qualcosa che va oltre il momento dello show musicale: c'è anche il tragitto, il viaggio che ti porta in luoghi che non frequenteresti e che ti costringe a conoscere una realtà diversa dalla tua. Al contrario del protagonista di "El Vagabuund" che ha trasformato il viaggio nella sua dimora ideale, qui si parla di colui che sente forte il richiamo di casa. Se anche qualcuno giustamente vorrà stare via, perché sposerà la grande pianura, la città e via dicendo, lui sentirà troppo forte l'appartenenza. Dopo il concerto, quindi, ritornerà a casa».
Se lo ricorda ancora quel concerto?
«Eh, erano i primi anni delle superiori ed erano i Rockets, con questo disco "Galaxy" che conteneva "Galactica". Per noi all'epoca erano dei marziani veri e propri!».
Le sta capitando di riproporre dei brani che non presentava da tempo?
«Per la prima volta nella mia storia artistica propongo integralmente un album, che ovviamente è "Maader Folk". Poi ci sono degli inserti che è giusto fare e che servono per intercalare passato, presente e futuro all'interno della scaletta. Cerco di mantenere tutto ciò che la gente ha riconosciuto come dei talismani: quattro che ci sono sempre sono "Ninna nanna del contrabbandiere", "La curiera", "Pulenta e galèna frègia" e "Yanez". A volte si cambia qualcosa: si mette "Ventanas" e, in base a dove si va, si fanno delle scelte. Se suoniamo a Milano si fa "Quaranta pass" che è una canzone della città; dalle parti della Valtellina c'è "Il minatore di Frontale"; se vai in Svizzera, magari, si punta su "Il figlio di Guglielmo Tell"».