Asset, cassa di risonanza e business: l'indebitato pallone d’Europa è attraente
«Per avere un ritorno economico si deve avere pazienza: i piani di rientro sono a medio-lungo termine: dai cinque anni in su».
LUGANO - “Ci sono tre modi di perdere soldi: il più piacevole è con le donne, il più rapido è con il gioco e il più sicuro è con una squadra di calcio”.
È con questa battuta che, da molti anni a questa parte, imprenditori, industriali, semplici ricchi, hanno svicolato al momento di accollarsi l’onere di acquistare una società pallonara. Perché sì, può dare grandi soddisfazioni ed enorme visibilità, ma, salvo rarissime eccezioni, da sempre il calcio è un pozzo senza fondo. La fatica, anche fisica, che si accumula gestendo un club la si è almeno in parte conosciuta seguendo la parabola di Angelo Renzetti a Lugano. Uomo solo al comando per undici anni, il “pres” ha tirato un sospiro di sollievo nel momento in cui ha passato la mano. E come lui hanno fatto in tanti. Enrico Preziosi, per citarne uno, padre-padrone del Genoa per 18 anni fino alla recentissima cessione degli scorsi giorni. «Di questa storia non voglio parlare - ci ha fulminato il 73enne dirigente irpino - di investimenti nel calcio non voglio più sapere nulla».
Quasi contemporanei, l’addio dell’imprenditore dei giocattoli e quello di Angelo Renzetti hanno un altro aspetto in comune: nel ruolo di compratore hanno visto recitare un soggetto statunitense. A dire il vero, in ogni caso, sul pallone europeo di dollari ne erano già piovuti parecchi anche prima dell’arrivo della 777 Partners e di Joe Mansueto...
Ma perché tante spese a stelle e strisce, se è vero che con il calcio non si guadagna? Levatevi dalla testa la passione e il cuore: contano solo ed esclusivamente i (possibili) guadagni. E difatti tra i nuovi padroni del football - anzi del soccer, per dirla alla loro maniera - del Vecchio Continente non ci sono i magnati. Questo perché, dall’esplosione dei diritti tv, trent’anni fa, essere ricchissimo non basta più. Per mantenere competitività senza perdere il sonno (e la casa) servono i fantastiliardi di zio Paperone.
Rimangono tre “categorie” di proprietari: i fondi d’investimento, gli imprenditori che puntano a entrare in nuovi mercati, e quelli che già possiedono uno o più club e che mirano ad allargare il loro “business”.
Per i primi, vedi il fondo Elliott, il calcio è solo uno dei tanti asset sui quali puntare, per diversificare gli investimenti dei clienti. Per i secondi serve da cassa di risonanza nella speranza di piazzare altri prodotti in mercati ancora “vergini”. Per i terzi, infine, più è meglio. Più campionati, più giocatori, più visibilità, più trattative: più opportunità per crescere e fare profitti.
E il calcio, lo sport, è un porto sicuro nonostante al momento sia circondato da acque agitate. Questo perché coinvolge i sentimenti, ha dei tifosi-clienti già conquistati e fidelizzati e ha, almeno in Europa, un gigantesco potenziale. Questo pensano gli investitori nordamericani, che invece che sborsare qualche miliardo per comprare franchigie a casa loro - quello è il preventivo di spesa -, con qualche milione possono comprarsi qualche glorioso titolo nobiliare al di qua dell’oceano. Soprattutto ora che, con l’effetto di uno tsunami, la pandemia ha cancellato le certezze di molte società, lasciandole in crisi di liquidità e quindi sul mercato a prezzo di saldo. E in più con un patrimonio - se si pensa ai giocatori - attualmente sottostimato ma che nel giro di un paio d’anni potrebbe tornare al livello pre-crisi.
«Ma per pensare di avere un ritorno economico si deve avere pazienza - ci ha spiegato Marco Iaria, specialista di economia sportiva a La Gazzetta dello Sport - i piani di rientro sono infatti a medio-lungo termine: dai cinque anni in su, per essere chiari. Ogni situazione è comunque diversa dalle altre e può essere influenzata da tante variabili. Lo stadio è una di queste: avere la possibilità di costruirlo o di sfruttarne al meglio gli spazi dà alla proprietà grandi vantaggi».
Un po’ la situazione di Joe Mansueto, insomma. Non cuore - altrimenti avrebbe investito nel Beneventano, terra natale dei genitori - ma una scommessa quasi certamente vincente. Perché il nuovo patron bianconero ha scelto proprio Cornaredo? Perché presto, via referendum, il Lugano potrebbe avere una nuova casa, ovviamente, e anche perché la Super League offre possibilità irrealizzabili altrove. Non in Spagna, dove dilaga l’azionariato popolare. Non in Germania, dove gli stranieri non possono essere azionisti di maggioranza. Non in Inghilterra, che ha prezzi folli. Non Italia o Francia, dove con la spesa “bianconera” avrebbe acquistato una realtà piccola e con orizzonti limitati. In Svizzera, invece, con un esborso moderato si è regalato un club della massima serie che, ogni anno, può competere per giocare le coppe europee. E generare profitti. O almeno, per il momento, limitare le perdite. Tutto calcolato.