Norman Gobbi cita alcuni limiti: «Problema burocratico ed economico. Poi c'è chi preferisce recarsi sul posto di lavoro»
Sui controlli alle dogane: «Rischia di passare l'idea che da noi si possa fare ciò che si vuole»
BELLINZONA - Vada la chiusura di ristoranti, bar e strutture per sport e tempo libero, ma no all'homeworking generalizzato. La proroga delle misure anti-covid decisa dal Consiglio federale è accolta "con riserva" dal Governo ticinese. In particolare non vanno giù le restrizioni ulteriori imposte sui posti di lavoro. Una questione, spiega il presidente del Governo Norman Gobbi, dovuta a problemi di natura economico-logistica.
«Rendere obbligatorio il telelavoro - sottolinea il consigliere di stato - richiede oneri burocratici non indifferenti. Tra l'altro, già ora, molte delle attività aziendali - siano esse pubbliche o private - hanno switchato sull'organizzazione in gruppi, rafforzando l'home-office. Ciò significa che il sistema funziona senza dover obbligare le aziende ad attuarlo».
Cosa comporterebbe un eventuale obbligo?
«Per alcune piccole realtà significherebbe dover fare investimenti non sostenibili. C'è poi, come detto, un onere burocratico che non riteniamo opportuno sostenere, soprattutto quando le attività in generale sono già in difficoltà a causa della situazione epidemiologica e di rallentamento economico in generale. Semmai è utile rafforzare la comunicazione a favore dell'home-office, proprio perché funziona ed è facile da attuare. Ma deve poter essere attuato dalle aziende che hanno le capacità per poterlo fare».
In questo senso l'amministrazione pubblica come si sta comportando? È utopia ipotizzare un home-office generale?
«Se penso a quanto fatto dall'amministrazione cantonale posso dire che abbiamo rafforzato e ampliato lo strumento del lavoro da casa. Abbiamo dato questa possibilità, soprattutto per proteggere i nostri collaboratori, specie se con problemi fisici e/o di salute. Ci sono tuttavia situazioni in cui risulta difficile una conversione totale a causa della non completa digitalizzazione di alcune procedure e pratiche. Va detto inoltre che ci sono collaboratori che vogliono venire sul posto di lavoro perché più a loro agio e maggiormente in grado di regolarsi. E questo deve essere considerato».
Il digital divide resta quindi un handicap...
«Lo è. Molti processi e pratiche non sono state pensate per essere digitalizzate. Lo saranno in futuro e credo che questa crisi ci abbia insegnato quanto sia importante. È questa la chiave di volta per rendere maggiormente fruibili i servizi. Anche 24 ore su 24, magari non nella risposta, ma almeno nell'inoltro delle domande».
Tra le richieste del governo c'è quella di aumentare i controlli in dogana. E la preoccupazione di chi necessita di andare oltre confine, anche fosse solo per la spesa, si fa crescente.
«Per i controlli in uscita la decisione non è nostra, ma delle autorità italiane. Noi li abbiamo chiesti in entrata. La Confederazione ammette l'ingresso di chi lavora o viene a studiare da noi, ma vedendo le limitazioni che perdurano, specie sul territorio lombardo e che sono molto più restrittive rispetto alle nostre, il rischio è che si entri in Ticino per scopi turistici. Ecco, se non ci sono controlli, potrebbe passare l'idea che si possa fare ciò che si vuole».
Il riferimento va agli appassionati di sport invernali?
«Non solo. Qualche macchina italiana nelle nostre regioni la si vede. E non tanto sugli impianti di risalita, quanto nelle zone fruibili con le ciaspole o con passeggiate».
Ma è davvero questa la preoccupazione? Una passeggiata all'aria aperta, dove il rischio di contagio dovrebbe essere minore?
«In teoria dovrebbe essere minore. L'obiettivo però vuole essere limitare i movimenti e ridurre i contatti. Alla fine noi possiamo rispettare tutte le misure possibili, ma se sul confine la gente continua a muoversi liberamente si rischia il controsenso».