Il Covid soffoca la cultura. Carmelo Rifici, direttore artistico del LAC: «Così non si possono fare pianificazioni».
«Insieme alla cura della salute fisica di ciascuno di noi si sarebbe potuto esprimere uno sforzo maggiore per salvaguardare la salute psicologica e mentale. E il teatro avrebbe potuto aiutare».
LUGANO - «A un certo punto era diventato davvero angosciante fare e disfare i contratti con gli artisti. E anche adesso, senza alcuna certezza per il futuro, non possiamo fare programmi». Carmelo Rifici, direttore artistico del centro LAC (Lugano Arte e Cultura), lo ammette senza mezzi termini: «Abbiamo le mani legate». Il suo problema è quello di tanti altri luoghi di cultura, confrontati con le chiusure anti Covid. Quando si potrà ripartire davvero e con stabilità? E con quante persone in sala? «Uno spettacolo lo organizzi con un anno di anticipo. In queste condizioni non è possibile».
La vostra sala principale conta fino a 970 posti…
«Il sold out lo potremo avere solo quando saremo tutti vaccinati probabilmente. Quindi a quello non pensiamo. Ci sono soluzioni intermedie però. Fino a inizio novembre attuavamo precisi piani di protezione che funzionavano e che ci permettevano di accogliere fino al 60% della gente. Non sappiamo nemmeno se quei piani di protezione sarebbero ancora accettati».
Ce l’ha con la politica?
«Lo voglio subito precisare: è difficilissimo prendere decisioni in una situazione sanitaria del genere. E quindi comprendo che la politica abbia dovuto fare scelte immediate ed efficaci. Forse mi sarei aspettato un po’ più di discussione anche con noi. Abbiamo sentito tanto l’appoggio della Città di Lugano, meno di altre istituzioni».
Cosa desiderava?
«Un dibattito su cosa significhi il concetto di economia di un Paese. E su un concetto di salute più ampio, non legato solo al male fisico. È come se la cultura in questo non contasse nulla. Ho notato un modo un po’ cieco di guardare alla società. La cultura fa girare denaro. Tutte le compagnie che arrivano da noi, non solo al LAC, hanno ripercussioni su hotel, ristoranti, consumi. Il problema però è più ampio».
Prego.
«Parlano sempre i medici, i virologi. Perché gli psicologi e gli antropologi non hanno lo stesso spazio? Davvero conta solo la salute fisica? E perché quella psichica non ha lo stesso peso? La nostra è una società che esclude l’umanesimo».
Strutture come il LAC possono basarsi su un sostegno pubblico, le piccole compagnie invece hanno appena ricevuto una boccata d’ossigeno.
«Ma non si può parlare solo di soldi. Non si può andare a dire a un professionista “c’è una pandemia, in questo momento non c’è bisogno di te” e poi lasciarlo fermo oltre un anno. Vale per la cultura come per altri settori».
Ma c’erano, e ci sono, gli ospedali da salvare…
« La salute dei cittadini deve essere tutelata. Questo è ovvio e sacrosanto. Mi permetto di osservare che forse insieme alla cura della salute fisica di ciascuno di noi si sarebbe potuto esprimere uno sforzo maggiore per salvaguardare la salute psicologica e mentale. Un arresto così repentino delle vite e delle relazioni di noi tutti potrebbe causare danni per la nostra psiche. A un fornaio chiudi il forno e dici che il suo pane non vale niente? Sono certo che le decisioni siano state prese in una situazione di emergenza e in piena e totale responsabilità. Forse in un secondo momento avremmo potuto essere coinvolti. Ritengo che il teatro avrebbe potuto svolgere un ruolo di conforto contribuendo a rafforzare il senso di comunità, cosa importante in una situazione così delicata, e mentre parlo penso soprattutto ai più giovani e agli anziani».
Concretamente cosa state facendo ora in vista dei mesi che verranno?
«Questa stagione ormai è andata. Non ho difficoltà ad ammettere che al momento non stiamo più chiamando nessuno. Abbiamo promesso agli artisti “congelati” quest’anno di potersi esibire non appena sarà consentito. Questo sì. Poi c’è l’estate di mezzo. All’aperto probabilmente si potranno di nuovo svolgere spettacoli per un pubblico di 150 persone. Non siamo però nella condizione di sapere cosa programmare da settembre. È molto triste sentire artisti disperati dall’altra parte del telefono».
C’è la paura che col Covid non sia finita qui?
«Personalmente ogni tanto mi domando cosa accadrebbe se dopo l’estate si ripiombasse nell’incubo. Sarebbe una catastrofe. Voglio essere ottimista però. E sperare che vada davvero tutto bene. A quel punto saremmo pronti a un’estate di fuoco per mettere in piedi un cartellone all’altezza per la stagione che partirà a settembre».
Cosa dicono i suoi colleghi all’estero?
«In Svizzera non siamo messi poi così male. In Francia o in Italia mi pare che la situazione sia ancora più problematica. L'Inghilterra si sta preparando a una riapertura. Mentre la Spagna, ad esempio, non ha mai chiuso i teatri».
Il LAC in questi mesi però non è mai stato con le mani in mano…
«No. E va sottolineato. Abbiamo riconvertito il LAC in un teatro tecnologico che potesse sempre avere un contatto col pubblico. Perché la cultura, in un momento di transizione come questo, non potrebbe fungere da conforto per la comunità, in attesa di tornare alla normalità? È un aspetto che noi abbiamo portato avanti, purtroppo senza un particolare appoggio morale da parte di alcune istituzioni. Forse sarebbe importante rifletterci».