È una mamma forte e coraggiosa, il cui figlio ha preso parte a un attentato dove hanno perso la vita 8 persone.
Sabato sarà a Lugano in occasione del Festival Endorfine.
BOLOGNA/LUGANO - «Solo una madre può provare il dolore di un’altra madre. Io sono pronta a tutto quello che può portare pace». Valeria Collina, 72 anni, ha perso suo figlio Youssef nel corso dell’attentato di Londra del 3 giugno 2017, che aveva causato 8 morti e 48 feriti sul London Bridge. E Youssef, 22 anni, era uno dei tre membri del commando che sono stati in seguito uccisi dalla polizia. «Mio figlio era dolce e sensibile, mai avrei pensato che potesse commettere un atto del genere».
Valeria, che sabato pomeriggio sarà ospite a Lugano del Festival Endorfine, focalizza le possibili dinamiche che hanno stravolto a tal punto gli equilibri di suo figlio: «I fatti lo indicano come un terrorista. Youssef era nato nel 1995 in Marocco dal mio matrimonio con un uomo musulmano e si era integrato perfettamente. È stato scombussolato da quella che veniva riconosciuta come l’ingiustizia del mondo islamico e voleva portarmi in Siria perché credeva in un Islam puro. La separazione da mio marito lo ha poi colpito duramente. Ha probabilmente maturato un odio che non sono riuscita a individuare e liberare».
Valeria Collina affronta con dignità le colpe del suo adorato Youssef, che ha commesso un atto orribile. E lo fa con il cuore affranto e lo spirito di donna che cerca un messaggio costruttivo e liberatorio di fronte alla morte, lei che aveva deciso di creare la sua famiglia fra il popolo musulmano.
Cosa l’ha avvicinata al mondo islamico?
«Il teatro. Avevo iniziato a recitare ai tempi dell’università, a Bologna. In uno spettacolo riservato all’integrazione, ho conosciuto nel 1991 il mio futuro marito Mohammed, che due anni dopo ho accompagnato in un viaggio in Marocco. Ci siamo sposati, abbiamo avuto mia figlia Kauthar nel ’92 e mio figlio Youssef nel ’95. Io mi sono convertita all’Islam».
Come viveva in Marocco?
«All’inizio eravamo una famiglia felice, nella fede e nella preghiera. Io e mio marito avevamo lasciato l’Europa per distanziarci da tutto ciò che poteva contaminare l’educazione islamica che volevamo per i nostri figli, per questo motivo abbiamo rinunciato, fra le altre cose, alla televisione».
Una scelta forte.
«Al Jazira, canale onnipresente, avrebbe martellato per anni i cuori e le coscienze dei giovani con i bombardamenti in Afghanistan, la guerra in Iraq, il carcere di Abu Ghraib, i bambini estratti dalle macerie di Gaza, le rivolte arabe, la Siria…».
Nel 2015 lei ha deciso di rientrare in Italia.
«Ero reduce da un periodo complesso, anni di violenze. Non avevo rimorsi a lasciare mio marito, non sarebbe rimasto solo perché aveva scelto di prendere una seconda moglie. Mi aveva accompagnata Youssef, che poi aveva deciso di tornare in Marocco per frequentare informatica all’università. Nel 2016 mi aveva raggiunto a Bologna. A marzo era partito per Londra, un anno prima dell’attentato».
Lo sentiva regolarmente?
«Certo, andavo a trovarlo in Inghilterra e un nuovo viaggio era già programmato. Pur avendo seguito con orrore e con dolore quello che era accaduto sul London Bridge, non avevo neanche per un attimo immaginato che Youssef fosse capace di uccidere».
Sospettava dei legami con l’ISIS?
«Voleva partire per Istanbul, mi telefonò dall’aeroporto, ma non era la prima volta che cercava di portarmi in Siria, la terra del vero Islam, puro. Per lui, la Siria rappresentava una gabbia di costrizioni e regole che potevano renderlo sicuro, certo di non peccare in una giustizia non più umana ma divina».
Quando è venuta a conoscenza della morte di Youssef?
«L’attentato è accaduto il sabato. Dopo giorni di profondissima angoscia, in cui ho cercato in ogni modo di mettermi in contatto con mio figlio, il martedì ho voluto consegnare alla Digos il mio telefono per aiutare le ricerche: “Mi dispiace, signora. Suo figlio è morto”. La certezza della sua morte ha cancellato tutto…».
Lei trasmette un’incredibile energia. Dove la trova?
«Un dramma del genere ti obbliga a reagire, trovi dentro di te una volontà di sapere e di fare. Ho ritenuto di parlarne nel rispetto soprattutto delle vittime perché il perdono e la pace possano avere un senso».
Ha incontrato qualcuno coinvolto nella strage?
«Avrei voluto. Il collegamento da Bologna a Londra era pronto con la madre di un sopravvissuto, io ero in postazione, all’ultimo lei non se l’è sentita».