Il futuro a braccetto con il Covid-19? Lo ha raccontato Giorgio Palù: «Il virus muta».
«Ciò che funziona oggi per combatterlo potrebbe non funzionare domani».
PADOVA - È subdolo, molto più infettivo di tanti che l'hanno preceduto e presenta ancora dei lati sconosciuti. Sono queste tre le peculiarità che hanno reso il Covid-19 tristemente famoso. Ed è a causa di esse che le nostre vite sono state messe in pericolo e le nostre abitudini profondamente cambiate. Fino a quando durerà tutto ciò? Ci si chiede in continuazione. “Fino a quando non sarà trovato un vaccino”, è l'unica risposta che ci viene data.
Quello che nessuno ha (finora) detto è che un vaccino non sarà però la soluzione definitiva al problema. Non sarà “per sempre”.
«Il virus muta e questo è ormai assodato – ci ha spiegato Giorgio Palù, virologo di fama mondiale, docente emerito all'Università di Padova e professore a Philadelphia – Certo lo fa molto lentamente, ma continua a cambiare. Ciò che funziona oggi per combatterlo potrebbe dunque non funzionare domani. Questo significa che il vaccino, inteso come arma preventiva, non garantirà una copertura infinita».
Ci si deve arrendere all'idea di una vaccinazione annuale contro il Sars-CoV-2?
«Questo no. I “cambiamenti” non sono rapidi: su 800 sequenze di virus analizzate sono state riscontrate solo due mutazioni. La normale influenza e l'HIV, per intenderci, mutano 7-10 volte più velocemente del Covid-19. È però probabilissimo che un trattamento per contrastare il contagio dovrà essere ripetuto periodicamente. Ogni quanto? Qualche anno. Due, tre, cinque, mi verrebbe da dire. Anche se al momento gli elementi per azzardare una previsione del genere sono troppo pochi».
Questo significa anche che chi è già stato malato non è al sicuro?
«Chi ha sviluppato gli anticorpi – se ne ha sviluppati abbastanza - è protetto per questa “versione” del virus, diciamo così. Una mutazione cambierebbe però tutto».
Ci spiega l'”abbastanza”?
«Il numero di anticorpi sviluppati dipende dalla forza dell'infezione. Gli asintomatici, quelli che presentano un'immunità innata o che attraverso muco, ciglia, enzimi proteolitici, lisozima, macrofagi e altro hanno “limitato” il loro contagio, hanno visto poco stimolato il loro sistema immunitario. Questi hanno sicuramente possibilità maggiori di ammalarsi nuovamente rispetto a chi, per esempio, è stato ospedalizzato, che per il virus allo stato attuale può sentirsi sicuro. Lo spiega uno studio cinese di qualche anno fa».
Non sul coronavirus, che è nuovo...
«Il Sars-CoV-2 non è il primo coronavirus nel quale ci imbattiamo. Dal 1960 è il settimo. Conosciamo poco quest'ultimo, non la famiglia».
Un dibattito acceso riguarda l'utilizzo del plasma dei malati. È la soluzione perfetta, meglio del vaccino?
«Sono dubbi che non capisco. L'utilizzo del plasma... sapete a chi e per cosa è stato assegnato il primo Nobel per la medicina, nel 1901? A von Behring, premiato per i suoi studi sulla sieroterapia. Stiamo parlando di qualcosa che esiste e sappiamo che funziona da più di un secolo».
I limiti di questo trattamento riguardano la disponibilità di plasma. Se anche tutti i guariti donassero non ce ne sarebbe abbastanza per curare i nuovi contagiati.
«Le donazioni non possono essere fatte da tutti. Il siero di chi ha pochi anticorpi non garantirebbe la protezione che darebbe invece quello di chi ne ha sviluppati molti. I soggetti adatti a donare sono quindi una minima parte».