In Bangladesh, la pandemia ha evidenziato le pecche di un'industria dell'abbigliamento malata: «Dev'esserci una svolta».
DACCA / LOSANNA - L’industria della moda è stata duramente colpita dall’emergenza coronavirus in Bangladesh, dove la produzione di indumenti per il mercato mondiale è un affare da 34 miliardi di dollari, rappresenta l’84% delle esportazioni e occupa 4,4 milioni di persone.
A causa della chiusura delle fabbriche tessili per motivi sanitari e della cancellazione di almeno 3,1 miliardi di dollari di ordini da parte delle aziende di moda internazionali, le operaie (principalmente donne) di questo settore sono rimaste a decine di migliaia senza stipendio e in più di 1 milione hanno perso il lavoro. La riapertura degli stabilimenti a inizio maggio, inoltre, le sta esponendo a un pericolo accresciuto di contagio, con distanze sociali talvolta non rispettate e carenza di dispositivi di protezione, denuncia una recente inchiesta del Guardian.
Dalla Svizzera, Public Eye sottolinea come la pandemia di Covid-19 abbia evidenziato le criticità di questo settore in Bangladesh e in altri Paesi in via di sviluppo. L'organizzazione non governativa chiede alle case di moda internazionali maggiore responsabilità sociale verso i dipendenti delle fabbriche tessili che producono per loro: «Ad oggi, circa 21mila persone hanno firmato il nostro appello», fa sapere la portavoce Géraldine Viret. «Questa partecipazione dimostra che numerose persone in Svizzera si preoccupano anche delle sorti delle operaie tessili e vorrebbero che i marchi della moda svizzeri e internazionali agissero finalmente in maniera responsabile», aggiunge.
Il Bangladesh, conferma la responsabile, è uno dei Paesi più gravemente colpiti dalla crisi del coronavirus a livello d’impiego. Come ovunque, l’emergenza ha causato una riduzione delle attività «senza precedenti», ma in un Paese con scarse protezioni sociali e così dipendente da un singolo settore ciò ha avuto conseguenze più pesanti che altrove: «Le organizzazioni della società civile, i sindacati, ma anche i consumatori devono approfittare di questo momento di passaggio e fare di tutto per far evolvere le regole del gioco nella direzione di un sistema più solido, più giusto e più sostenibile», afferma Viret.
La speranza che dall’emergenza coronavirus possa effettivamente uscire qualcosa di buono, però, per il momento resta limitata: «A questo stadio, è difficile intravedere dei risvolti positivi di questa crisi», ammette la portavoce di Public Eye. «Ciò che è chiaro è che ha messo in luce più che mai il malfunzionamento di un’industria della moda basata sullo sfruttamento di decine di milioni di persone e la fragilità delle catene di approvvigionamento», aggiunge.
Per quanto riguarda le protezione dal contagio al rientro in fabbrica, Public Eye è costretta a confermare un certo disinteresse per la salute delle operaie: «Secondo nostre informazioni, le misure sanitarie non sono rispettate, in particolare nei trasporti pubblici e all’entrata e all’uscita dagli stabilimenti», fa sapere Viret. «Gran parte delle operaie non si sente al sicuro a recarsi al lavoro, ma sono obbligate a farlo perché il pagamento del salario da parte dello Stato per aprile non copre che il 65% del salario minimo legale», aggiunge la responsabile. Quest’ultimo, con i suoi 91 franchi al mese (8’000 taka), «è già comunque insufficiente per coprire i bisogni di base», come lo sono gli stipendi corrisposti normalmente, in ogni caso generalmente inferiori ai 100 franchi al mese.