Un fenomeno diffuso nel quotidiano sudcoreano e un incubo per milioni di donne. La denuncia: «Pochissimi pagano»
SEUL - Aver paura di cambiarsi o usare una toilette quando si è fuori casa, o anche in casa propria, per timore di essere riprese da una telecamera nascosta e finire sulla pubblica piazza del web. Sembrerà singolare ma, questo, è un sentimento diffuse fra le sudcoreane.
Il motivo si chiama gergalmente molka, ovvero l'uso voyeuristico di telecamere per filmare per la stragrande maggioranza ragazze e donne nei bagni di ristoranti, bar e anche negli uffici dove lavorano.
Si tratta di un fenomeno così diffuso nella vita quotidiana che nel 2018 ha portato 22'000 persone a protestare per le strade di Seul. La manifestazione ha convinto il presidente Moon Jae-jin a chiedere pene più dure per i criminali con multe salate e carcere. Sanzioni che, malgrado la buona volontà delle istituzioni, alla fine difficilmente vengono davvero comminate.
A ritrarre in maniera ancora più accurata il fenomeno ci ha pensato un nuovo studio dello Human Rights Watch - l'Osservatorio dei diritti umani di New York - come riportato da un articolo recente del Guardian.
La ricerca prende in esame il periodo che va dal 2008 al 2017 ed evidenzia un aumento dei casi di circa 11 volte. Il picco è di 7'000 casi (denunciati) annui, circa il 20% (uno su cinque) dei crimini sessuali che finiscono all'attenzione delle autorità sono crimini sessuali di natura digitale.
Le condanne, quando arrivano, sono spesso lievi: «La polizia non li prende seriamente, perché non c'è contatto fisico fra l'aguzzino e la vittima», spiega Lina Yoon di Human Rights Watch, «ma è una cosa terrificante per le sopravvissute, con il fatto che le immagini finiscono poi sul web rischia di essere una ferita permanente, sempre pronta a riaprirsi».
Nel 2020 nel 79% dei casi finiti all'attenzione di un tribunale, l'aguzzino è condannato a pagare una multa oppure una pena sospesa, o entrambe. Circa uno su due dei casi denunciati (43.5%) però non arriva nemmeno davanti al giudice, e viene abbandonato in fase istruttoria.
Una delle condanne più note in questo senso riguarda i 40 anni di carcere dati a Cho Ju-bin, giovanissimo boss di una chat Telegram che diffondeva foto a carattere sessuale, ritenuto colpevole di vari capi d'imputazione tra i quali lo sfruttamento sessuale, anche di minorenni.