La senatrice Elena Ferrara racconta la sua battaglia per una legge europea contro il bullismo online
Il suo impegno prende avvio dalla tragica fine di una sua allieva, Carolina Picchio, la quattordicenne che nel 2013 si suicidò perché «le parole fanno più male delle botte».
ROMA - Risucchiata negli abissi (senza fondo) dei cristalli liquidi, la nuova “generazione hashtag” si ostina a gettar ponti virtuali tra sé e le proprie vittime a suon di byte, porno-vendette e foto osé. Pare infatti che l’invisibile pesantezza del virus abbia reso i “vecchi mali” ancora più tragici. «Lockdown e scuola a distanza hanno inaugurato una stagione giù di tono per i teenager, i quali hanno cercato incoraggiamento e risposte in un enorme coacervo di pratiche erotiche virtuali, meglio conosciute con il nome di sexting, body shaming e revenge porn». Con buona pace del galateo informatico, a darne notizia è la firmataria della prima legge in Europa di contrasto al bullismo online, la senatrice Elena Ferrara, la quale punta il dito contro l’homo-smartphonicus.
Umberto Eco sosteneva che i social hanno «dato diritto di parola a legioni di imbecilli». È davvero così?
«Attualmente si parla diffusamente e con preoccupazione della piazza digitale come amplificatore di linguaggi di incitamento alla violenza, ma l’accesso a Internet, diritto peraltro fondamentale della persona, non è né buono né cattivo, siamo noi che dobbiamo scegliere come utilizzarlo. Per non cadere nei pericoli che corrono sul filo della rete, basterebbe imparare a dare umanità al web».
Che cosa cela questo abuso dei social nei giovanissimi?
«Per un adolescente la cosa più importante è riscuotere consensi ed essere accettati nel gruppo dei pari. Se il prezzo da pagare è pubblicare una foto un po’ discinta, beh, lo si fa; d’altra parte pubblicare contenuti offensivi e lesivi dell’intimità altrui permette di aumentare i propri follower! La cosa riprovevole però, è quando la sessualizzazione della società coinvolge anche i bambini, spesso esposti ad immagini a sfondo sessuale anche violente e nocive. Stiamo gettandoli nella ragnatela virtuale alimentando sessualizzazioni precoci, pedofilia e pornografia. Il bullismo elettronico è solo la punta dell’iceberg».
Sta dicendo che il cyberbullismo è ben più insidioso del bullismo di cui è figlio?
«Sì, perché nell’agorà virtuale questa ilarità, questa derisione, questo atteggiamento di pressione e persecuzione verso la vittima dilaga poiché si può perpetrare 24 ore su 24. La community di astanti è talmente iperbolizzata che se non si trova nel giro di breve tempo un antidoto capace a interrompere questa catena d’odio, si può facilmente incappare in episodi violenti, alle volte forieri di conseguenze drammatiche. In certe circostanze il soggetto vessato non potendosi rifugiare da nessuna parte, mette in atto un vero proprio ritiro sociale e la cameretta diventa il guscio nel quale potersi sentire al riparo da vergogna e umiliazione».
Che differenza c’è tra i bulli offline e quelli online?
«Che i primi possono trasformarsi facilmente nei secondi. Un adolescente su 3 è vittima di bullismo digitale e, benché quest’ultimo sia meno diffuso rispetto al bullismo tradizionale, che vede coinvolto 1 ragazzino su 2, è fenomeno in forte crescita. I cyberbulli spesso bullizzano proprio perché sono (o sono stati) a loro volta vittime. Sono quei ragazzi con un profilo ambivalente. La rete diventa per loro uno spazio dove sfogare le proprie rabbie e frustrazioni».
La prepotenza elettronica è più diffusa tra le quote azzurre o rosa?
«Il gentil sesso è tuttora la vittima prediletta del cyberbullo. Malgrado ciò la ricerca mette in evidenza come frequentemente le protagoniste di questi simili atti siano proprio le femmine. Non a caso 1 bullo digitale su 3 è donna».
Qual è il comportamento che contraddistingue la cyberbulla?
«A differenza dei coetanei maschi, le donne si avvalgano di un’irruenza velata, più sottile, più insidiosa, ma non fisica. Discriminano le compagne maggiormente deboli, le denigrano, le minacciano e infine le emarginano gettandole nel baratro del silenzio».
Che cosa avvertono i bullizzati?
«Possono andare incontro ad ansia, depressione, a cambi di abitudini alimentari, a problemi del sonno, ad autolesionismo o a veri e propri sintomi psichiatrici. Il dramma? Metà di loro pensa al suicidio come via d’uscita. La mia legge è entrata in vigore dopo un episodio tragico che ha coinvolto una mia alunna delle scuole medie, Carolina Picchio, diventata protagonista di un video a sfondo sessuale diffuso sui social. Per lei si è subito scatenata la gogna mediatica che l’ha perseguitata fino a spingerla a togliersi la vita. Si tratta del primo caso italiano di cyberbullismo acclarato, considerato che Carolina si è congedata dal mondo lasciando una testimonianza molto lucida della ragione per cui commetteva quel gesto: "Scusatemi, non ce la faccio più a sopportare. Le parole fanno più male delle botte. Ciò che è accaduto a me non deve più succedere a nessuno"».
Quando invece è il professore a essere un bullo o viceversa una vittima?
«Se uno studente non rispetta l’autorevolezza del docente, e lo fa tramite atteggiamenti lesivi o diffamatori, che danneggiano la sua immagine, anche attraverso la pubblicazione di filmati realizzati in aula, in questo caso non si parla più di bullismo, bensì di specifici reati. Tuttavia non si può neppure negare come negli ultimi anni sia cresciuto il livello di conflittualità nelle scuole: genitori che picchiano insegnanti o all’opposto docenti che prevaricano gli studenti e così via. Parliamo di un trend diffuso, frutto di un mancato riconoscimento sociale tra le istituzioni educative stesse, le quali dovrebbero invece lavorare insieme».
I cosiddetti nativi digitali sono in grado di governare gli strumenti tecnologici?
«Se fino a pochi anni fa, il cyberbullo iniziava a manifestare le prime violenze tra i 14 e i 16 anni, adesso, l’età si aggira tra i 7 e gli 8 anni. Ma non possiamo pensare che bambini di 8 anni siano capaci di usare in modo critico i dispositivi informatici; non hanno né le competenze cognitive, né tantomeno quelle emotive per farlo».
I genitori sanno educare ai media?
«Alcuni genitori, purtroppo, cullati dall’abbaglio di aver messo al mondo pargoli prodigio, illuminati da valentia digitale, si comportano al pari di cyber-struzzi; del resto si tratta di una generazione cresciuta in un mondo analogico e che si trova ad allevare figli immersi nella tecnologia fin dalla nascita. Proprio per questo padri e madri dovrebbero essere supportati e guidati a comprendere che le immagini di un minorenne andrebbero protette, e non buttate in pasto all'uso ossessivo compulsivo dei media».
Ciò che succede nel mare magnum del web è il riflesso di quanto accade nella realtà?
«Sì, anche se quello che stiamo cercando di comunicare ai ragazzi è che pure il virtuale è reale».
Tanto quanto il sexting?
«Esattamente. Prova ne sia che l’invio di contenuti e immagini a sfondo erotico-sessuale via Internet da parte di un soggetto facilmente predestinato a diventare vittima di offese, minacce o estorsione (sextortion), è un fenomeno in crescita. Il cyber-criminale agisce di solito con fini estortivi: contatta la vittima e la convince a farsi mandare foto osé allo scopo di chiederle un riscatto per impedirne la pubblicazione L’aggravante? Benché il sexting sia una pratica sdrammatizzata, coinvolge 1 adolescente su 4».
Durante il lockdown anche i casi di revenge porn sono aumentati esponenzialmente, però!
«Sì, certo, lo confermo. Nella fattispecie, però, parliamo della diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti realizzati e divulgati senza l’autorizzazione della parte lesa. La vera ignominia è che i promotori di questa volgare pratica sono proprio gli adulti. Come possiamo pensare che i nostri figli siano scevri agli usi distorti della rete, se poi sono le stesse figure di riferimento a utilizzarla in modo improprio?».
Come si esce dalle trame inumane della iperconnessione?
«In Svizzera non esiste un articolo di legge sul cyberbullismo, ma ciò nonostante le vittime hanno comunque il vantaggio di poter portare i “carnefici” in tribunale, perché rispondano delle loro condotte. Tuttavia credo che la vera sfida sia anche pedagogica. Intendo dire che per formare cittadini digitali consapevoli non basta la sola competenza tecnologica, serve anche quella relazionale».