Dopo il raid sull'ambasciata in Siria, Teheran ha diverse carte: tutte rischiose. Dall'attacco diretto a Israele alla «pazienza strategica»
TEHERAN - L'Iran ha promesso vendetta per l'attacco che, lunedì scorso, ha colpito la sua ambasciata a Damasco, in Siria, uccidendo 7 funzionari (tra i quali, due generali). Secondo gli analisti, il raid è da considerarsi come l'atto più grave nel suo genere dagli inizi del 2020, quando - quella volta a Baghdad - a essere preso di mira fu il convoglio del generale Qassem Soleimani. Per completare l'equazione: la paternità del raid in Siria è stata largamente attribuita a Israele, mentre gli Stati Uniti sono stati rapidissimi nel comunicare a Teheran che, in sostanza, "noi non c'entriamo nulla" e "nulla sapevamo". Infine, l'incognita: in che modo l'Iran potrebbe "mettere a terra" la sua rappresaglia?
Il quotidiano israeliano Haaretz parla oggi di Israele «in massima allerta» per il timore di una ritorsione iraniana. «Tutti i segnali dicono che Teheran è determinata a rispondere all'assassinio, si presume da parte di Israele, del comandante delle Guardie della rivoluzione», si legge in un'analisi pubblicata questa mattina.
Sul tavolo di Teheran ci sono diverse carte da pescare. E con esse anche qualche pericoloso paletto che la Repubblica Islamica non vuole (o non vorrebbe) oltrepassare. L'Iran potrebbe decidere di concedere delega, come abitualmente fa per le questioni militari "correnti", a qualche suo "proxy" nella regione per colpire direttamente Israele o, di ripiego, le forze statunitensi in Medio Oriente. «È ciò che fanno da anni, quando si sono sentiti presi di mira con aggressività da Israele, non hanno colpito gli israeliani ma gli americani», che vengono considerati "bersagli facili" nella regione, ha spiegato all'Associated Press Charles Lister, direttore del programma Siria del Middle East Institute.
Né tigre di carta, né guerra totale
Colpire direttamente Israele sarebbe più problematico. E non sorprende che, sfogliando la stampa internazionale, si parli infatti di "dilemma" per l'Iran, che non sembra avere tra le sue volontà quella di innescare un'ulteriore escalation che avrebbe come inevitabile conseguenza un allargamento del conflitto già in corso nella regione. Inoltre, a Teheran c'è chi attribuisce un certo grado di responsabilità a Washington che, pur non avendo ancora registrato minacce specifiche in questi giorni, resta sempre vigile perché - citando il comandante delle forze aeree a stelle e strisce in Medio Oriente, il tenente generale Alexus Grynkewich - la retorica iraniana quando si parla di Stati Uniti può sempre essere fonte di rischio.
«Gli iraniani sono confrontati con questo dilemma», ha sottolineato una fonte anonima all'agenzia Reuters. «Se dovessero rispondere potrebbero andare verso uno scontro che non vogliono. Stanno cercando di soppesare le loro azioni affinché siano percepite come una risposta, senza però arrivare all'escalation». Né tigre di carta, né guerra totale.
Ma Teheran potrebbe esercitare anche quella che Fawaz Gerges, professore di relazioni internazionali alla London School of Economics, ha definito «pazienza strategica», puntando sul raggiungimento dell'obiettivo ultimo nell'ottica di una deterrenza diffusa, nella regione e oltre, ossia la bomba atomica. L'Iran, ha detto Gerges alla BBC, «sta accumulando potere, sta arricchendo uranio, sta facendo progressi. E il primo premio per l'Iran non sta nel lanciare cinquanta missili balistici e uccidere un centinaio di israeliani, ma nell'istituire una deterrenza strategica, non solo nei confronti di Israele ma anche verso gli Stati Uniti».