Il presidente bielorusso ha mediato in prima persona il dietrofront della ribellione del gruppo Wagner. E ora intende capitalizzare
MINSK - Dallo sbattere in cella 32 legionari della Wagner, a fine luglio 2020, a spianare la via all'esilio per il suo capo è un attimo lunghissimo, quasi tre anni esatti. Vissuti pericolosamente. Alexander Lukashenko, l'immortale autocrate bielorusso, solo qualche settimana fa era dato moribondo dopo un ricovero d'urgenza a Mosca di cui si è saputo pochissimo, tanto che l'opposizione dall'estero aveva incoraggiato il popolo a «tenersi pronto». Invece niente. 'Batka' - ovvero padre in bielorusso, nel suo caso padrone - è ricomparso con l'ennesima capriola che lo rimette al centro dei giochi. Finché la giostra dura.
Quasi 70 anni (68 per la precisione), Lukashenko è presidente dal 1994, cioè dalle prime elezioni libere dopo la caduta dell'Unione Sovietica. Proto-populista, gabbò i bielorussi promettendo la classica folgore contro gli intrallazzoni e invece iniziò a picconare dal primo giorno regole e Costituzione, garantendosi un predominio continuo - e lascamente legittimo - sino al fatidico agosto 2020, quando in piena pandemia di Covid - «si cura col lavoro del trattore nei campi», una delle sue indimenticabili massime - pensa bene di lasciarsi sfidare da tre donne, contentino all'Occidente petulante per mantenere la farsa in scena. Grande errore. La piattaforma di cambiamento guidata da Svetlana Tikhanovskaya scalda i cuori, riempie le cabine elettorali e gonfia le piazze nel giorno in cui la Commissione Elettorale annuncia un risultato fantascientifico, invertendo praticamente l'ordine di arrivo. È la rivolta, soppressa a suon di legnate e persecuzioni giudiziarie, con oltre 1500 prigionieri politici ancora in cella.
È lì che Lukashenko si laurea dittatore. E ottiene il sostegno del solo Vladimir Putin - Batka lo chiama "fratello maggiore". In contemporanea arrivano le sanzioni e la strategia dei due forni va a farsi benedire: addio 'piedino' all'Europa in cambio di concessioni e doppiopetto neutrale che gli valse la sede dei negoziati tra Russia e Ucraina. Minsk si ritrova a quel punto saldamente nelle zampe del Cremlino, determinato a non perdere mai e poi mai la sua ultima colonia. Lukashenko si barcamena, tra viaggi a Soci e partite di hockey con Putin, sempre inseguito dalle voci d'imminenti trattati di cooperazione sulla sicurezza che varrebbero l'annessione.
«Lukashenko cercherà probabilmente di sfruttare la de-escalation della ribellione armata di Prigozhin per promuovere i suoi obiettivi, come ritardare la formalizzazione dello Stato dell'Unione Russia-Bielorussia o impedire a Putin di utilizzare le forze bielorusse in Ucraina», analizza l'Institute for the Study of War. Una linea Maginot alquanto labile, dato che lo zar ha comunque usato la Bielorussia come trampolino di lancio per assaltare Kiev e ora la trasforma in silos nucleare per spaventare l'Europa. Ma è lo stesso una bella rivincita per il vassallo degradato a semplice 'yes man'.
La realtà è che Lukashenko e Putin ormai condividono l'osso del collo: Batka, salvando lo zar, cerca di salvare se stesso e costruire spazio politico per i suoi figli, fantasticando una dinastia del sovkhoz (iniziò la sua stellare carriera dirigendone uno). Ma il vento, anche in Bielorussia, sembra ormai spirare verso Occidente, benché meno impetuoso di quanto non lo fosse in Ucraina. Certo, Lukashenko (e Putin) hanno fatto di tutto perché finalmente lo diventasse.