Come il mercato dei capi usati discrimina le fasce più povere e deturpa l'ambiente generando un mercato miliardario
MADRID - A livello mondiale si parla di un mercato da circa 177 miliardi di dollari e che entro i prossimi quattro anni dovrebbe raddoppiare. Ma in che cosa consiste esattamente il settore degli abiti usati, non è ancora chiaro. Questo in quanto non esiste un sistema sostenibile e predefinito di trattamento di questo tipo di rifiuti.
Stando a una nuova indagine di Greenpeace i vestiti di seconda mano che vengono lasciati nei container, che essi siano comunali o nei negozi, rischiano di viaggiare per mesi prima di trovare una destinazione, ma non è detto che trovino un destinatario. E se la raccolta degli indumenti inutilizzati si presenta nella maggioranza dei casi come un'opera caritatevole, finisce in realtà per discriminare chi dovrebbe aiutare e peggiorare ulteriormente le sue condizioni già precarie, sia per la qualità dei vestiti, sia perché questi finiscono spesso per deteriorare il territorio e contribuiscono ai cambiamenti climatici.
Ma veniamo ai dati. L'Ong paladina dell'ambiente si è munita di 29 capi di abbigliamento usati e di buona qualità e di altrettanti geolocalizzatori. L'indagine è stata condotta in Spagna e i vestiti sono stati depositati in appositi container che si trovavano sulla via pubblica sia nei negozi di Zara e Mango. Distribuiti in 11 città tra i mesi di agosto e settembre di quest'anno, hanno da allora intrapreso dei lunghissimi viaggi. Sono approdati in Cile, in Pakistan, sono stati fermi negli Emirati Arabi Uniti per poi essere ritrovati in Egitto, e ancora in Togo, India e Marocco. Solo un capo è rimasto in Europa e ha nel corso di questi mesi trovato un acquirente.
Discriminazione sulla qualità
Analizzando i dati del commercio estero del Ministero delle Finanze relativi al periodo tra luglio 2022 e giugno 2023, Greenpeace è riuscita ad appurare che la Spagna esporta verso 113 Paesi diversi 131'900 tonnellate di rifiuti tessili. Di questi, 119'300 sono classificati come seconda mano. La maggior parte di questi indumenti finiscono negli Emirati Arabi Uniti, in Marocco e Pakistan. Ma di che qualità?
Per ottenere questo dato, l'Ong ha calcolato il relativo valore dell'export (euro al chilo), dividendo il valore statistico medio delle esportazioni per il numero di chili esportati. Un valore alto indicava in tal modo una qualità maggiore e uno più basso una minore. Come si legge nell'indagine, «possiamo farci un’idea della qualità confrontando il prezzo dei capi di abbigliamento spediti in Francia (5,61 €/Kg) con quelli spediti nella Repubblica del Congo (0,07 €/Kg), che sono fino a 80 volte più economici».
Contaminazione da rifiuti tessili
Qui le domande sono due. Questi indumenti sono davvero necessari? E in che modo contribuiscono all'economia dei Paesi di arrivo? Da un lato, spesso in un primo momento i vestiti di seconda mano arrivano in zone economiche speciali o franche dove si trovano aziende dedite alla compravendita di questo tipo di bene e fanno quindi circolare l'economia locale.
Dall'altro come stimato dall'Agenzia europea dell'ambiente, se a livello mondiale il 46% dei rifiuti tessili vengono inviati in Paesi dell'Africa, è anche vero che il 40% di questi finisce perlopiù in discariche o bruciato. Passano quindi da risorsa a contaminazione. Un esempio emblematico è il deserto di Atacama in Cile, dove montagne di rifiuti si stanno lentamente decomponendo inquinando l'ambiente circostante. E, se non rimossi, continueranno a farlo per centinaia di anni.
C'è chi però sta agendo al fine di mettere un freno a questo mercato, che si può considerare ormai come un'altra faccia dell'ultra fast fashion - se infatti retailer come Zara e Mango hanno posizionato nei loro negozi dei container per la raccolta dei vestiti invitando quindi l'acquirente a dare una seconda vita ai propri vestiti, allo stesso tempo sono gli stessi che spingono ad acquistare in modo continuo e sfrenato.
«Diversi paesi africani stanno considerando la possibilità di limitare le importazioni di tessuti usati al fine di proteggere e rafforzare la produzione tessile locale. Ciò dimostra che le importazioni non solo danneggiano l’ambiente, ma possono avere un impatto sociale negativo in termini di sviluppo economico».
La metà non è ancora giunta a destinazione
I dati ottenuti dalla ricerca di Greenpeace sono da ritenersi ancora preliminari, in quanto l'Ong ritiene che i capi - eccetto quello arrivato in Bulgaria - non siano ancora giunti alla loro destinazione finale, sebbene quasi la metà fra questi abbiano lasciato la Spagna.
«Ci sono capi che sono stati localizzati nei mercati, ma non si sa se alla fine verranno acquistati. Altri si trovano in magazzini o in aree industriali dedicate alla gestione dei rifiuti tessili. Inoltre è stato rilevato che quelli arrivati negli Emirati Arabi Uniti non resteranno forzatamente lì». Che questi siano stati depositati in contenitori sulla via pubblica o nei negozi, il viaggio che intraprendono non cambia, in quanto i capi vengono elaborati dagli stessi enti di gestione.