Il trio, del quale fa parte il bassista Francesco Rezzonico, ha pubblicato l'album omonimo.
Il tour di lancio, che avrebbe dovuto portarli in mezza Europa, è saltato causa coronavirus
LUGANO - È stato pubblicato il nuovo disco di Stahlwerk, formazione jazz svizzera ma anche un po' ticinese, vista la presenza del bassista Francesco Rezzonico.
L'album, intitolato "Stahlwerk" come il trio composto da Dominic Stahl (pianoforte), Tobias Schmid (batteria) e dal già citato Rezzonico, è stato registrato in co-produzione con SRF2 Kultur il 20 marzo di quest'anno presso HOUT Records a Basilea. Alla pubblicazione sarebbe dovuta seguire una tournée di lancio - ovviamente saltata a causa delle limitazioni vigenti per la pandemia di coronavirus - che avrebbe portato Stahlwerk in giro per l'Europa, con 16 concerti tra Svizzera, Austria, Slovacchia, Polonia e Germania.
Come definire l'arte di Stahlwerk? Il trio si muove con assoluta libertà ai confini tra jazz, minimal, pop, rock e classica. Il loro approccio è molto libero e dinamico, fa viaggiare la mente e funziona molto bene sia con gli appassionati di jazz che con i novizi del genere, ci ha spiegato Rezzonico. Il pubblico, specialmente dal vivo, viene coinvolto in «un'unica e irripetibile spedizione collettiva, il cui esito è incerto».
C'è l'improvvisazione alla base di questo lavoro: da cosa siete partiti quando l'avete registrato in studio? Avevate idea di quale sarebbe stato il risultato?
«Siamo entrati in studio allo stesso modo in cui saliamo sul palco: senza scaletta, senza regole, senza preconcetti. Abbiamo un repertorio di brani che ognuno di noi conosce per filo e per segno, il che ci permette mentre suoniamo di stravolgerli completamente, in un contesto completamente improvvisato in cui le composizioni sono solo materiale grezzo con cui giocare. Questo continuo processo distruttivo e creativo ci permette di trovare a ogni concerto nuove interpretazioni e nuove combinazioni, mantenendo la musica "fresca" sia per noi che per il pubblico. Anche in studio abbiamo quindi registrato, come a un concerto, lunghe suite improvvisate, selezionando in seguito il materiale per l'album. Il che ovviamente comporta un certo livello d'incertezza, non avendo né un obiettivo concreto né una rete di sicurezza. Ma siamo molto contenti e fieri del risultato!».
Quali sono gli elementi che possono catturare l'attenzione anche di chi non è un esperto di jazz?
«Mi ricordo che ai nostri primissimi concerti, sette anni or sono, ero un po' apprensivo quando il pubblico in sala non era particolarmente avvezzo al jazz, temendo che una musica ritmicamente e armonicamente così complessa sarebbe risultata troppo astratta. Mi sono invece presto reso conto che era un timore infondato: uno dei feedback più comuni era "in generale il jazz non fa per me, ma stasera mi è piaciuto un sacco!". Ancora non ho capito esattamente da cosa dipenda, ma è una musica che rappresenta un viaggio sia per noi che per chi ascolta, e sembra trascendere le preferenze stilistiche. Forse anche perché, pur essendo jazz, ha delle influenze molto varie e soprattutto vive dell'interazione tra noi tre musicisti».
Quali sono state le vostre principali influenze?
«Non abbiamo mai avuto dei modelli di riferimento (che come piano trio con basso elettrico sarebbero comunque piuttosto rari) ma abbiamo sviluppato insieme, da outsider, un stile che è per forza di cose solo nostro».
La tournée di lancio dell'album è saltata causa coronavirus: cosa farete in attesa di farlo conoscere dal vivo?
«Putroppo temo che per quel che riguarda le nostre attività estive non ci sia granché d'interessante da scrivere in un articolo. Stiamo facendo promozione per il disco sperando nelle vendite online, non potendolo proporre ai concerti. Nel frattempo tento di recuperare il più concerti possibile in autunno, ma al momento è una grande incognita. Recupereremo di sicuro il concerto a Biasca. Inoltre c'è più tempo del solito per il lato creativo, quindi potrebbe esserci qualche nuova composizione nel repertorio autunnale!».