Il guru dell'arte visiva ha ricevuto tre nomination agli Oscar, e nel 2019 ha ricevuto quello alla carriera
LOS ANGELES - Lo hanno definito l'ultimo uomo del Rinascimento, l'autentico surrealista americano, il regista più misterioso di Hollywood. In realtà nessuna definizione si adatta fino in fondo al carattere e al talento di David Keith Lynch, nato a Missoula nel Montana il 20 gennaio 1946, e che oggi compie 75 anni.
Già è difficile definirlo "solo" regista, visto che dopo un'adolescenza girovaga al seguito del padre, ricercatore per il dipartimento dell'Agricoltura, a 20 anni si trasferisce a Philadelphia per frequentare l'accademia di belle arti. La pittura è la sua passione, durante il liceo ha imparato il disegno alla Corcoran School di Washington, ritiene Francis Bacon «un eroe, il più grande artista moderno» e si ispira a Oskar Kokoschka. Proverà anche a studiarlo andando in Austria, ma dopo soli 15 giorni di soggiorno nella linda Salisburgo, tornerà in patria alla ricerca del «disequilibrio» della sua terra.
A Philadelphia si appassiona però all'immagine in movimento e come saggio di fine corso presenta il cortometraggio "Six Figures Getting Sick". «Era soltanto uno dei miei quadri - ricorda-. C'era una figura che occupava il centro della tela. Mentre stavo osservando la figura nel quadro ho avvertito un leggero spostamento d'aria e ho colto un piccolo movimento. E ho desiderato che il quadro fosse realmente in grado di muoversi, almeno per un po'».
Da qui comincia per lui un'avventura ancora oggi avvolta nel mistero: sbarcato a Los Angeles, nel 1971, usa una borsa di studio dell'American Film Institute per cominciare le riprese del suo primo lungometraggio. I soldi sono pochi e ci vorranno sei anni perché "Eraserhead" veda la luce. Il risultato viene giudicato impossibile da distribuire ma, grazie all'aiuto di alcuni amici, Lynch riesce a proiettarlo in qualche sala come spettacolo di mezzanotte e, con la pellicola in valigia, sbarca in Europa al festival del fantastico di Avoriaz. Spilungone, con l'aria smarrita dell'americano di provincia, senza nemmeno un giubbotto per difendersi dal freddo sulle Alpi francesi, si aggira tra cinefili e star con l'aria di un alieno sbarcato sulla terra.
La proiezione del film, un incubo surrealista a occhi aperti, girato in bianco e nero e dominato dalla terrificante incarnazione di un feto d'incerta origine (Lynch non rivelerà mai di cosa si tratti e lo seppellirà in gran segreto organizzando una veglia funebre con la troupe), si traduce in un autentico evento. "Eraserhead" vince il premio, diventa un oggetto di culto, suscita mille interpretazioni e per dieci anni sarà proiettato a notte alta in moltissime sale d'essai americane.
Il regista si rifiuterà sempre di spiegare il senso delle immagini subliminali e disturbanti che attraversano la pellicola facendo suo un mantra poi rispettato anche in futuro («i film parlano da soli, inutile sovrapporre intenzioni e spiegazioni») tanto che nessuno dei suoi lavori distribuiti in home video contiene interviste esplicative. Del resto tutta la sua arte è un continuo travaso di esperienze visuali, meditazione, viaggi nell'inconscio e nelle ossessioni giovanili, come a voler ricreare il tessuto emotivo di una generazione e dell'America profonda. Non a caso i suoi maggiori successi, da "Velluto blu" a "I segreti di Twin Peaks" sono ambientati in piccoli paesini isolati, tra il freddo delle montagne e le grandi pianure del Nord Ovest.
La svolta nella carriera da cineasta di David Lynch viene col secondo film, "Elephant Man" (1980) per il quale, grazie all'impegno di amici e collaboratori con cui ha formato una sorta di "famiglia artistica" che durerà nel tempo, ottiene l'attenzione di Mel Brooks. Il regista di "Frankenstein Junior", dopo visto il primo film dell'outsider di Philadelphia, accetta di produrlo: in cambio otterrà ben nove candidature all'Oscar per un film in bianco e nero ambientato nella Londra vittoriana e consegnerà a Hollywood la nuova star del momento.
Per paradosso l'occasione della vita diventerà il più grande fallimento di Lynch. Dino De Laurentiis gli consegna il progetto della vita: l'adattamento di una saga visionaria come "Dune" di Frank Herbert. Alle prese con un budget da blockbuster (45 milioni di dollari del 1984) e la pressione del tamtam mediatico, il regista si smarrisce e non sarà apprezzato né dal pubblico né dalla critica, disconoscendo i tagli imposti da De Laurentiis e anche la versione più lunga approntata per la tv.
Sull'orlo di una profonda depressione e pronto a tornare ai suoi vecchi amori (la pittura, ma anche la musica che lo vedrà emergere come compositore e voce solista), David Lynch porta a De Laurentiis un nuovo copione, quasi a risarcimento del flop precedente. In una cornice nostalgica da noir classico, ha messo in "Velluto blu" (1986) tutte le sue ossessioni, i fantasmi dei paesini di montagna in cui è cresciuto, i suoni dell'America anni '50, la fascinazione del male e delle misteriose dark ladies. Sceglie attori poco costosi come il dimenticato Dennis Hopper, la sua icona Isabella Rossellini, il giovane Kyle McLachlan scoperto in "Dune"; incontra il musicista Angelo Badalamenti che farà la sua fortuna, ripaga la fiducia del produttore con un vero trionfo critico e la seconda (di tre) nomination all'Oscar come miglior regista.
Tre anni dopo il produttore Mark Frost che gli apre le porte della tv con la serie per l'ABC "I segreti di Twin Peaks": gli americani non avevano mai visto nulla di simile e la serie diventerà il punto di riferimento di tutta la fiction di fine secolo, nonché l'ossessione del regista che tornerà ai suoi personaggi in "Fuoco cammina con me" (1992) e nel nuovo "Twin Peaks" del 2017.
Nel frattempo ha vinto la Palma d'oro a Cannes con "Cuore selvaggio", realizzato i più misterios noir degli anni '90 ("Strade perdute" e "Mulholland Drive"), dato sfogo alla sua fantasia surreale con "Inland Empire", vinto un Leone d'oro a Venezia nel 2006. L'Oscar alla carriera del 2019 mette un punto fermo al suo talento. Ma fuori dal cinema si è intanto imposto come un artista di primo piano con mostre in tutto il mondo (celebre la collaborazione con Louboutin per le installazioni di "Fetish"), dischi e video sperimentali, degni di un genio senza schemi né limiti. «Le idee - dice di sé -arrivano nei modi più impensati, basta tenere gli occhi aperti».