Con "Quegli stupefacenti anni zero" Olmo Cerri racconta l'epoca avventurosa dei canapai, tra problemi e una grande occasione mancata
LUGANO - "Quegli stupefacenti anni zero" è un tuffo nel passato. Anni non troppo lontani, che chi ne ha almeno trenta ricorda piuttosto bene. Per alcuni sono coincisi con il periodo delle scuole secondarie, per altri con gli anni dell'università, altri ancora erano già entrati nel mondo del lavoro e c'era chi stava mettendo su famiglia. Tutti però, a prescindere dalla propria situazione, non possono non ricordare la seconda metà degli anni '90 e i primi anni Duemila come l'era dei canapai in Ticino.
Proprio di questa esperienza, durata alcuni anni ma che ha lasciato un segno profondo nell'opinione pubblica, parla il podcast in cinque puntate di Olmo Cerri, realizzato dal settore Audiofiction della RSI. L'autore del premiato "Macerie", che narra la storia dell'autogestione luganese dagli esordi del Molino fino alla controversa demolizione del 2021, ha creato una narrazione avvincente di quegli anni, che appaiono nel racconto sicuramente avventurosi, forse un po' romantici e sicuramente ricchi di contraddizioni, ipocrisie e problematiche. Una certa distanza storica ha permesso inoltre di valutare molti aspetti con calma e franchezza».
Che storia ha voluto raccontare?
«Quella dei canapai è una storia un po' dimenticata, che abbiamo vissuto tutti di rimbalzo. In questo caso però il racconto parte dalla mia storia personale, quella di un diciottenne cresciuto in un Ticino in cui si poteva comperare e vendere “erba” in maniera apparentemente legale».
Quali sono stati gli elementi chiave di questa vicenda?
«Un miscuglio di cose: il pasticcio legale con la sentenza del 1998 che avrebbe potuto fare da precedente, il muoversi sull'orlo dell'illegalità, la creazione di un mercato nuovo...».
La lettura più onesta mi sembra quella espressa da Luigi Pedrazzini...
«Sì, certo. Fondamentalmente c'era un problema di volontà politica».
È stata una grande occasione persa, quindi.
«Sicuramente. Un'occasione mancata, gestita con grande ipocrisia, senza un vero dibattito. Era l'occasione per cambiare le leggi, per aprire a una regolamentazione più razionale della sostanza. E invece...».
Quale pensi che sia stato l'errore fatale?
«L'aver lasciato al libero mercato la gestione di una sostanza che, in fondo, avrebbe avuto bisogno di essere trattata con più rispetto e attenzione. È come l'alcol e le sigarette: non si può liberare tutto, ci sono delle fasce di popolazione che vanno tutelate e degli interessi di salute pubblica di cui bisogna tenere conto».
Ha ragione Michel Venturelli quando parla che con i canapai si poteva agire sulla riduzione del rischio, togliendo spazio alle organizzazioni criminali e impedendo quello che in alcuni casi è stata poi l'escalation del consumo (da parte di chi, non trovando più l'erba, è passato alla cocaina a buon mercato)?
«Ha pienamente ragione. Mi dico che forse non c'era abbastanza apertura mentale: all'epoca sarebbe stata una cosa rivoluzionaria, ma oggi è qualcosa che si fa con la sperimentazione sulla distribuzione della canapa in farmacia. Forse il Cantone all'epoca non era ancora pronto. Ma mi sembra chiaro che vendere la sostanza legalmente, in un negozio, si sarebbe potuto regolamentare ancora di più e in contemporanea si sarebbe tolta un sacco di forza al mercato nero».
Non mancavano comunque le criticità...
«C'erano dei problemi di qualità della sostanza, ma se quando si presentava una difficoltà si fosse cercato di risolverla, forse oggi avremmo una legge sulle droghe più adatta ai tempi».
Quanto tempo hai impiegato per realizzare il podcast?
«Ci sono voluti diversi mesi di lavoro, necessari in primis per ricostruire la rete di contatti e relazioni e poi per selezionare cosa utilizzare nella mole di materiale raccolta. Abbiamo lavorato con interviste molto lunghe, che hanno offerto una certa intensità di racconto».
C'è stata un'intervista particolarmente complicata?
«Quella ad Antonio Perugini è stata difficile dal mio punto di vista, perché avevo nella mente l'immagine dello "sceriffo" che spazza via un mondo che, in fondo, mi affascinava - senza sapere tutti gli aspetti criminogeni. Invece l'intervista è stata molto piacevole: lui è stato di una cordialità estrema, è ancora molto convinto delle sue posizioni e le motiva bene».
Una che rimpiangi di non aver potuto fare?
«Magari a uno di quei personaggi del mondo della canapa a livello internazionale, che erano arrivati in Ticino. È stato più difficile intercettarli».
Quale ruolo ha avuto la musica in questo podcast?
«Tranne i brani "d'epoca" è stata composta dal compositore ticinese Victor Hugo Fumagalli. È più di un sottofondo: è servita per contrappuntare le emozioni, a dare un ritmo alla narrazione, magari anche giocando sui contrasti».
Cosa ami, in un podcast?
«Il potere evocativo del suono: basta mettere un po' di vento, il latrato di un cane in lontananza e il racconto assume un carico emotivo diverso».
Parlando in generale di podcast: siamo nell'età dell'oro di questo genere?
«Non è più un nuovo modo di raccontare ma sì, credo che sia davvero l'età dell'oro. C’è una grande voglia di storie da ascoltare, non è più solo una nicchia. Forse qui in Ticino siamo ancora un po' in ritardo, ma globalmente mi sembra un mezzo maturo ma con ancora grandi spazi di sperimentazione. Il lavoro che il team Audiofiction della RSI porta avanti conferma questa tendenza, penso per esempio alla serie “Loris” di Flavio Stroppini o a “Cimiteriali” di Sara Flaadt».
Qual è il segreto per un podcast di successo? Conta di più la capacità narrativa, la perizia tecnica, l'avere una buona storia da raccontare? O tutto questo insieme?
«Penso che avere una buona storia sia importante. Ma poi contano aspetti come l'intimità che si crea e come si racconta. La questione tecnica non è fondamentale: ho sentito podcast dalle zone di guerra fatti con lo smartphone e montati in situazioni d'emergenza, ma che avevano la verità dentro».
E il segreto di "Quegli stupefacenti anni zero"?
«Con il sonorizzatore Thomas Chiesa abbiamo lavorato molto sui paesaggi sonori e sulla qualità della registrazione. Ma la cosa davvero fondamentale è la sincerità».