L'attesissimo album, disponibile da pochi giorni, completa il ritorno in pompa magna del gruppo rap italiano. La nostra recensione
MILANO - Il rap in Italia, nel frattempo, è cambiato. Loro no. Per la gioia di chi ci sperava e di chi, in sostanza, faceva lo stesso ma con dieci anni di acredine in arretrato, orfano di un bersaglio troppo grosso per essere mancato. Ai Club Dogo portare quel bersaglio sulla schiena non è mai pesato in passato, figuriamoci ora, dopo un decennio in absentia che ne ha alimentato il mito. Perché l'epica dei Dogo - poi nutrita a dismisura dalle carriere soliste di Guè e Jake la Furia - nasce proprio nel momento in cui la loro storia "si interrompeva". Diventati un'ombra, di qualcosa che c'era ma non era più. E che poteva tornare. O forse no.
Il se, il quando e il come sono rimasti a lungo intrecciati in un unico nodo. Poi, in un lampo, è accaduto tutto. Il segnale luminoso del cane a tre teste proiettato dalla cima di un grattacielo nella notte di una Milano in stile Gotham City (con la "correità" di Claudio Santamaria e del sindaco Beppe Sala, protagonisti del trailer). Le dieci date da tutto esaurito annunciate al Forum di Assago. Il «sogno di ogni zanza» che si avvera. E infine, quando l'album - "Club Dogo" - era fuori solo da qualche ora, anche San Siro: «Voglio le chiavi della città». Detto, fatto.
Ma qui è del "sogno" che vogliamo parlare. Perché "Club Dogo" è esattamente quello che "la gente" voleva. "Eh ma non porta nulla di nuovo"; gli strali sui social, si sa, non mancano mai. La verità è che non c'era alcun bisogno di farlo. Il loro "pugno in faccia" per ridisegnare la scena lo hanno già assestato un paio di decenni fa (Mi Fist, vi dice nulla? ndr.) e ora si concedono il proverbiale giro d'onore, incastonato di sacro flow e quintali di auto-citazioni, incassando anche tra quelli che un tempo li guardavano dall'alto, magari tappandosi il naso. È il test di paternità positivo rivendicato sulla scena («Ho cambiato il rap game coi Club Dogo/Come se avessimo inventato noi questo gioco»); un ritorno a «grande richiesta perché il rap oggi fa schifo», citando la primissima rima con cui il Guercio apre il disco in "C'era una volta in Italia".
Poco importa poi se sia vero o meno; sono iperbole da predatore alfa. Così come poco importa se l'immaginario e i codici richiamati dai Dogo siano sempre gli stessi; sebbene con un'estetica forte di tutti gli upgrade che servono - a partire dalle produzioni di Don Joe -, senza però mai scivolare nella viscosità di quei trend appiccicosi che attirano a sé tutto ciò che passa. Chiamatela strafottenza se volete. Come i passamontagna sulla scalinata della Triennale - al Palazzo dell'Arte di Milano -, i «rimo da quando...» di Guè o tutto il francesismo di quel «state per sucare» annunciato, via Instagram, pochi minuti prima del party di lancio del disco. Il fatto è che sì, se lo possono permettere. Perché le penne - e ci mancherebbe - non hanno preso un filo di ruggine (e anzi, oggi, diciamolo pure e senza scomodare valori storici e pietre miliari, sono più bravi di quanto non fossero dieci o vent'anni fa).
Tutto il resto che si può dire lo dicono loro in prima persona negli undici pezzi che compongono l'album. A partire dai chilotoni declinati al puro esercizio di stile nel duetto d'apertura, con la già citata "C'era una volta in Italia" e in "La mafia del boom bap". Lo storytelling nell'amore tossico raccontato nella glaciale "Tu non sei lei" contrapposto alle strofe in madreperla di "Nato per questo", l'attesissima collaborazione con l'amico di una vita Marracash, uno che non guarda dal basso nessuno e qui protagonista con una strofa che, ancora una volta, chiarisce cosa ci fa una targa Tenco nel suo salotto. E parlando di collaborazioni, come si sperava, sono poche. Pochissime. Le altre sono con Sfera Ebbasta ("Milly") ed Elodie ("Soli a Milano"). Nessun biglietto d'oro di Willy Wonka elargito al nuovo che avanza di turno. Per tutti gli altri c'è solo l'invito della Furia: «Togliete i piedi dal tavolo, i capi sono tornati a casa».