L'ex consigliere nazionale e oncologo Franco Cavalli parla dei risvolti, anche inattesi, della pandemia
«Dobbiamo tornare a formare medici e infermieri. Basta rubarli all'estero. E ancora: «Con un ospedale cantonale unico tutta la medicina sarebbe concentrata ora in un luogo "sporco", contagiato. La scelta dell'ospedale multi-sito è stata la migliore»
BELLINZONA - È una peste capace di chiudere a riccio gli individui, ma anche di innescare la più spontanea solidarietà tra vicini. E lontani, come dimostrano i 52 cubani, fra medici e infermieri, accorsi al capezzale della Lombardia malata. Un gesto che l'oncologo ticinese Franco Cavalli può spiegare meglio di altri. Lui che è direttore tecnico dell'Associazione per l'aiuto medico al Centro America, ma anche presidente di mediCuba Europa (associazione che fornisce al Paese da quasi sessant’anni sotto embargo Usa materie prime farmaceutiche). «In questo momento - spiega il medico - Cuba sta aiutando il mondo. Sebbene abbiamo, ad esempio, difficoltà oggi a trovare reagenti per i test sul Covid. Ci hanno chiesto aiuto e noi stiamo lanciando una campagna per fornire loro fondi».
Un gesto, quello cubano, che non la stupisce…
«La crisi attuale mostra che la nostra società può farcela solo con la solidarietà di tutti. L'aiuto di Cuba non è poi nuovo, visto che hanno missioni mediche in un'ottantina di paesi. Castro era un grande sostenitore della medicina e Cuba in proporzione forma dieci volte più medici della Svizzera. Per loro inviarne dove ci sono necessità è normale. Sono stati in Pakistan quando c'è stato il terremoto. Ma anche in Etiopia. Sono stati in Africa a combattere l'Ebola. Sempre in prima linea nel filone di quella solidarietà internazionale che risale in fondo al Che Guerava».
In Svizzera, invece, la pandemia ha messo a nudo un Paese che non forma abbastanza personale sanitario.
«Quando ero consigliere nazionale mi ero battuto ferocemente contro il numero chiuso nelle università, ma poi il Parlamento ha voluto, e continua a volere un sistema che forma meno della metà dei medici necessari. E ce ne sono ogni anno a dozzine di ticinesi che vorrebbero studiare Medicina ma non possono. La conseguenza è che il nostro sistema sanitario può sopravvivere solo contando su medici italiani, germanici, francesi e austriaci. Ed è quasi un furto».
In che senso?
«Ogni anno "rubiamo" all'Italia 50-60 medici e se formarne uno costa quasi un milione di franchi si arriva a una cifra che equivale quasi ai famigerati ristorni. La pandemia dimostra che bisogna eliminare questo maledetto numero chiuso che ci sta strozzando».
Potrebbe essere l’eredità positiva di questa tragedia?
«Certo, perché il numero chiuso si fonda solo su un ragionamento egoistico. Su un mero calcolo economico perché farli venire dall'estero è più vantaggioso. Se il parlamento non lo toglierà, sarà la popolazione stessa a volerlo».
Non che vada molto meglio con il personale infermieristico. Che dire al proposito?
«Anche se in Ticino l'Ente ospedaliero cantonale ha fatto molto per limitare il numero delle infermiere frontaliere, ci sono realtà come Ginevra e Losanna dove più della metà delle infermieri sono francesi. Di conseguenza se i Paesi a noi vicini precettassero i loro concittadini la Svizzera avrebbe un grosso problema».
Come rendere la professione più attrattiva?
«Il Parlamento sta discutendo l'iniziativa, di cui sono sostenitore, per delle cure infermieristiche forti lanciata dall'Associazione svizzera delle infermiere. Da un lato chiediamo che il Governo Federale aiuti i Cantoni a formare più infermiere. Dall’altro che vengano migliorate, con dei fondi, le condizioni di lavoro. È il problema di un mestiere molto duro, pagato relativamente male. Più della metà delle infermiere dopo 5-6 anni lasciano».
Qual è il suo giudizio sull’emergenza in atto?
«Credo che in questa situazione le strutture sanitarie del Canton Ticino si stanno battendo molto bene. Addirittura siamo probabilmente meglio preparati del resto della Svizzera. Ma soprattutto abbiamo avuto la dimostrazione che l’ospedale strutturato dall’Eoc come multi-sito è la scelta migliore. Avessimo avuto un unico ospedale cantonale tutto sarebbe più difficile, perché sarebbe “sporco”, contaminato dal virus. Invece abbiamo ospedali puliti per la medicina a favore di chi non è Covid positivo».
Nel male di oggi tutti guardano speranzosi al dopo. Lei è ottimista sul mondo che lascerà la pandemia?
«È presto per dire. Di sicuro passata la crisi sanitaria, ce ne sarà una economica molto più forte di quella del 2008. Attraverseremo un momento durissimo in cui spero prevalga la solidarietà e non lo spirito, vergognoso, appena mostrato dai grandi capi dell’economia svizzera. A lunga scadenza sono abbastanza positivo. A condizione che, a livello globale, si ponga fine all’aumento delle diseguaglianze. Allora potremmo avere un periodo come quello dei trenta gloriosi con il Welfare generalizzato che seguì il secondo conflitto mondiale. Per quasi trent’anni andò tutto bene finché non spuntò il neoliberismo della Thatcher e di Reagan». Come dire che pandemia potrebbe scacciare pandemia».
La capo Area infermieristica Annette Biegger: «Qui oggi nascono dei grandi team»
La situazione attuale sta affinando anche la solidarietà all’interno dell’Eoc. «Ha rafforzato la collaborazione tra le sedi - dice Annette Biegger, responsabile dell’Area infermieristica -. Il personale medico e infermieristico è stato concentrato nel centro Covid a Locarno dove l’attività sta aumentando in modo esponenziale». Un aspetto evidenziato da Biegger è che «i colleghi, infermieri e medici, sono pronti e a disposizione per trasferirsi in altre sedi e lavorare insieme. Si crea una dinamica di collaborazione tra queste equipe. Stanno nascendo dei team completamente nuovi. È un’esperienza molto positiva che stiamo osservando». Tutto questo nonostante, aggiunge la capo Area «si sappia che il lavoro è molto impegnativo con i pazienti Covid. E che si è confrontati anche con paure». Positiva è anche la collaborazione con la clinica Moncucco, «che è molto importante perché ci scarica dal peso che arriva a Locarno». La collaborazione si estende, in parte, anche a nord: «Loro ci offrono aiuto, ma penso non si rendano ancora conto che tra pochissimo saranno nelle nostre stesse condizioni».