L'ex consigliere di Stato racconta la malattia, il ricovero a La Carità, e il ritorno - difficile - alla normalità
LUGANO - Il virus non guarda in faccia a nessuno. Personaggi dello spettacolo, calciatori, politici e naturalmente ex politici. In Ticino, Paolo Beltraminelli è stato - ironia della sorte - tra i primi ricoverati in terapia intensiva a La Carità di Locarno. L'ex direttore del DSS si è ritrovato nei panni del paziente, in lotta con il nemico invisibile.
Un'esperienza «dura e provante» racconta a tio.ch/20minuti. Oggi il già consigliere di Stato (58 anni) è in fase di guarigione, dimesso venerdì scorso dall'ospedale, è di nuovo uscito all'aria aperta nella "sua" Lugano, dopo 20 giorni trascorsi in gran parte a letto. «Sono andato a fare la spesa, non vedevo l'ora» dice. «Il ritorno alla normalità è lento e nient'affatto facile».
Il peggio è alle spalle. Possiamo contarla tra i guariti?
«Sento ancora un po' di debolezza. Ma sì, sono fuori pericolo. Altrimenti non sarei stato dimesso».
La distinzione tra dimessi e guariti è d'attualità. In Ticino il medico cantonale ha esitato a fornire numeri.
«È vero, non sono la stessa cosa. Ma a mio modo di vedere bisognerebbe parlarne di più. Chi viene dimesso o non viene ricoverato, dopo un periodo ragionevole e se non ha più sintomi è da ritenersi guarito. Bisogna dire alla popolazione che la grande maggioranza dei contagiati, per fortuna, ne esce bene. In questa situazione servirebbe più positività».
Lei lo dice ora, che è fuori pericolo. È sempre stato ottimista?
«Ho passato momenti di ansia e preoccupazione e per molti giorni non ho dormito. Ma anche quando ero in ospedale, tramite i social, ho cercato di mandare messaggi positivi e appelli alla responsabilità delle persone. La situazione dev’essere presa molto sul serio, tutti devono capirlo e comportarsi di conseguenza».
Lei come si è comportato?
«Ho seguito con disciplina le indicazioni, ma non ho rinunciato ad alcune abitudini, prima di scoprire di essere positivo, come fare jogging o lavorare. Ma ho sempre rispettato le distanze sociali e le norme igieniche. Questo purtroppo non ha impedito il contagio»
Come è stato contagiato?
«Ho un sospetto. Uno starnuto "parato" male da una persona che, a quanto so, è poi risultata positiva. Ma è appunto un dubbio. Non ho voluto appurare, e comunque non punto il dito contro nessuno».
Dal jogging all'ospedale. Può raccontarci come è andata?
«Ho mostrato i primi sintomi dopo cinque giorni esatti. Prima, mi sentivo bene. Il quinto giorno sono tornato da una corsa e mi sono sentito, improvvisamente, molto stanco. La sera ho iniziato a tossire, una tosse molto secca».
Si è spaventato?
«In realtà, soffrendo già di asma ho pensato fosse quello. Parliamo della seconda settimana di marzo, in Ticino i contagiati non erano tantissimi. Il giorno dopo ho anche lavorato. Poi la notte mi sono svegliato, erano le tre, sono andato in bagno e sono svenuto di colpo cadendo a terra pesantemente. Il rumore è stato molto forte e mia moglie, che tra l'altro è medico, per fortuna è intervenuta immediatamente. È venuta a prendermi l'ambulanza».
Poi La Carità di Locarno.
«Sono stato tra i primi ricoverati a Locarno. Dopo il tampone positivo, sono stato subito sottoposto a una Tac che ha rilevato un'infezione ai polmoni. Devo dire che i medici sono stati molto professionali e attenti, pur senza nascondere che, una cura non esiste, ci sono molte incertezze, si può peggiorare improvvisamente e molto si sta scoprendo strada facendo. Un grazie particolare lo devo alla dottoressa Rita Monotti che mi ha preso per mano sino alla dimissione».
Non le è venuto il sospetto di essere trattato "coi guanti"?
«Me lo sono chiesto, non lo nego. Per otto anni ho diretto la sanità ticinese: un sistema che si trova oggi confrontato con una sfida senza precedenti. I medici e il personale sanitario stanno dimostrando grande professionalità, e non fa differenze tra i pazienti. La mia situazione era grave».
Cosa le è pesato di più durante la degenza?
«La mancanza di sonno e la stanchezza. La tosse e l’ansia mi hanno impedito di chiudere occhio per molti giorni. All’ospedale l’ansia è maggiore che a casa propria perché si teme maggiormente di peggiorare repentinamente. Solo ora, dopo quasi venti giorni difficili, ho ricominciato ad avere delle notti quasi normali. Per la stanchezza riuscivo a fare ben poco, a parte gli esami medici».
E cosa dicevano gli esami?
«Che la polmonite era estesa e i parametri infiammatori non erano buoni. Si pensava che il ricovero sarebbe durato una settimana, ma poi sono diventate due. Fino al settimo giorno il timore era di un tracollo improvviso, che per fortuna non c'è stato. Il resto è stato soprattutto riposo. Riposo assoluto, finché gli esami hanno registrato che la polmonite stava rientrando».
Ora è pronto per la vita di prima?
«Il ritorno alla normalità deve essere lento e graduale e molto rispettoso. Non saremo mai completamente tranquilli fino a quando ci sarà un vaccino. A chi si trova nella mia situazione consiglio di non avere fretta. Ci vuole almeno una settimana dopo il rientro a casa. Ogni piccolo passo è comunque un grande evento. Prendere il carrello e fare la spesa, ad esempio come ho fatto oggi dopo venti giorni d’isolamento!».
E guardando indietro, ha qualcosa da rimproverarsi?
«A posteriori, forse, avrei potuto evitare il jogging, ma non lo sapevo. Non bisogna colpevolizzare. Tantissimi ticinesi hanno contratto e contrarranno il virus, non bisogna colpevolizzare nessuno ma guardare avanti, uniti e disciplinati ce la faremo».