L'esperto: «È stato fatto un buon lavoro, senza allarmismo ma nemmeno banalizzazione»
Ma all'inizio non c'era un sguardo abbastanza critico sulle decisioni politiche per la gestione della pandemia
LUGANO - Quando nei primi giorni del 2020 è comparsa sui media la notizia relativa a una misteriosa polmonite che si stava diffondendo nella metropoli cinese di Wuhan, si stava ancora parlando di una realtà molto lontana. Ma poi con i primi casi in Europa (in particolare nella vicina Italia) e in Svizzera, per giornali e portali online l'argomento principale è diventato il coronavirus.
«In generale i media hanno fatto un buon lavoro, anche considerando che si sono trovati di fronte a una situazione nuova e anomala: non è stato fatto allarmismo e la questione non è nemmeno stata banalizzata» ci dice Colin Porlezza, professore assistente di giornalismo digitale alla Facoltà di comunicazione, cultura e società dell'Università della Svizzera italiana. L'esperto parla inoltre di una copertura di qualità, anche rifacendosi a uno studio dell'Università di Zurigo: «In quest'anno nella cronaca della pandemia sono state fornite prospettive diverse, quindi non soltanto relative alla sanità pubblica, ma anche ad altri aspetti, quali l'economia, la politica e altri settori. C'è stata una pluralità di tematiche».
Una fase d'apprendimento - Ma questa cronaca “bilanciata” non c'è stata sin da subito. Una crisi sanitaria di questa portata è una novità assoluta. E inizialmente le testate giornalistiche hanno dato spazio ai singoli casi, con quella che era quasi una caccia al primo paziente. Anche casi individuali possono essere utili, soprattutto per comprendere da dove arrivava la malattia, ci spiega ancora l'esperto. Ma in seguito è stato necessario guardare oltre, «per sensibilizzare il pubblico il più presto possibile su quanto sta accadendo e sulle conseguenze per il sistema sanitario e per la società intera».
Rispetto agli inizi, nell'approccio mediatico si constata inoltre una maggiore visione critica. Se le prime decisioni politiche venivano accettate e riportate «in modo meno critico del solito», ora c'è invece un «maggiore scrutinio giornalistico, si cerca di esaminare le decisioni» afferma ancora il professor Porlezza.
Qualcosa è cambiato anche sul fronte delle voci interpellate dai media. Durante la prima ondata - osserva l'esperto - c'erano soprattutto epidemiologici ed erano quasi esclusivamente uomini. Soltanto in seguito sono poi entrati in scena anche esperti – ed esperte – di altri rami.
Una critica viene fatta anche all'impiego di numeri e statistiche, che inizialmente venivano pubblicati senza una contestualizzazione che ne permettesse la piena comprensione. «Così facendo, si rischiava di causare incertezze e paure nei lettori».
Più sono i casi, più sono gli articoli - Fatto sta che dallo scorso 25 febbraio, quando in Ticino è stato confermato il primo caso accertato di Covid-19 a livello cantonale e nazionale, il coronavirus ha praticamente monopolizzato la cronaca giornalistica. Una cronaca che, secondo lo studio dell'Universitâ di Zurigo citato da Porlezza, ha visto una forte correlazione tra il numero dei casi e il numero di articoli pubblicati. «Più alti sono i casi, più se ne parla» spiega. E aggiunge che nella prima fase il tema è stato coperto maggiormente in Ticino rispetto al resto della Svizzera, «in quanto il cantone era molto vicino a uno degli hotspot europei, ossia Bergamo e la Lombardia».