Non solo Roberto Ostinelli. Nicola Bianda, classe 1972, medico, esprime perplessità sulla gestione dell'emergenza.
«Ci hanno detto che il vaccino rappresentava la luce in fondo al tunnel – sostiene –. Questo tunnel continua ad allungarsi. Manca fiducia nelle istituzioni, la gente vuole tornare a vivere».
SOLDUNO - «Premetto che non parlo come medico e nemmeno come direttore sanitario di una casa per anziani. Bensì come essere umano e come cittadino». Classe 1972, Nicola Bianda è un medico domiciliato nel Locarnese. Ha deciso di raccontare a Tio/20Minuti il suo senso di disagio in merito alle misure anti Covid-19. Dopo Roberto Ostinelli, dottore di Mendrisio recentemente sospeso dall’Ordine, un altro uomo di medicina ticinese esprime dubbi sul modo con cui viene gestita l’emergenza.
Qual è l’aspetto che più la preoccupa?
«A livello sociale ed economico non so dove stiamo andando. Fino a gennaio mi sembrava di aver capito che il vaccino fosse il mezzo che ci avrebbe permesso di uscire dal tunnel. Questo tunnel continua ad allungarsi. E la popolazione non riceve informazioni concrete su quelle che saranno le strategie future, se non a corto termine».
È un momento di transizione. Non condivide?
«Tante persone sono stanche di restare in una condizione di standby. C'è una certa mancanza di fiducia nelle istituzioni. E c'è anche una carenza di comunicazione. Non solo in Svizzera ovviamente».
Anche su suolo rossocrociato, complici le varianti del Covid, si teme il rischio di una terza ondata. Qual è la sua opinione?
«Non possiamo prevedere il futuro. Siamo però coscienti di quello che abbiamo vissuto finora. A differenza di un anno fa, le persone hanno avuto il tempo di approfondire la nuova realtà. Invece di ostinarsi a usare la stessa strategia là dove non ha funzionato, è auspicabile provarne di nuove».
A cosa si riferisce?
«Ai temi della prevenzione primaria che abbraccia un ampio concetto di salute psicofisica. E non solo misure restrittive. Prevenzione quindi nel senso di uno stile di vita sano. Così da avere spiragli concreti di gioia e di speranza».
Si spieghi meglio...
«I contatti sociali fanno parte dei bisogni primari: l’essere umano è un animale sociale. Le relazioni non possono essere sospese per tempi lunghi e indefiniti o venire sostituite da una videochiamata».
In realtà rispettare le regole dovrebbe essere un gesto di responsabilità. O no?
«Finora è stato chiesto di rispettare le regole nel nome della collettività. Ma la collettività rimane qualcosa di astratto. Sono i singoli individui a creare la collettività. E in questo periodo gli individui sono stati messi da parte. Sembra che bisogna salvare qualcosa di grande. Ma qual è il prezzo da pagare? Abbiamo lasciato parecchie persone lontane dai propri affetti nelle case per anziani per quasi anno. Adesso c’è la necessità di creare uno spazio per una discussione costruttiva. Con lo scopo di trovare alternative d’azione differenti, anche coinvolgendo le persone direttamente interessate».
Ora le case per anziani possono tornare a respirare. Non le fa piacere?
«Ci sono stati degli allentamenti, ma non si è ancora nella normalità. Anche questo genera interrogativi. Quali libertà mi viene permesso di riprendermi se mi vaccino? E a cosa dovrò invece rinunciare se non lo faccio? Ricordo bene le notizie passate nella giornata dove sono state somministrate le prime dosi: molte persone che lo hanno ricevuto hanno espresso chiaramente che la loro speranza era quella di potere finalmente riabbracciare i loro cari. Il fatto che i residenti non possano ancora liberamente riprendere la vita sociale in modo completo, nonostante la conclusione del piano vaccinale nelle case per anziani, mi fa sorgere tante domande».
Come è andata la sua vaccinazione?
«Personalmente ho ritenuto di non avere abbastanza garanzie in merito alla vaccinazione e non me la sono sentita di farla».
Quale è la sua prospettiva per i mesi che verranno?
«Penso che sia corretto proteggere le persone a rischio. Ma nel contempo c’è tutto il resto della popolazione. Immagino che sarà sempre più difficile fare accettare alla gente la necessità di attenersi a determinate restrizioni. C’è voglia di tornare a vivere e non ci si accontenta più di sopravvivere. L’essere umano è fatto di bisogni fondamentali, di contatti sociali e anche di lavoro. Un argomento che si è evitato di esplorare finora è l’evoluzione della vita e il suo termine. Un termine che avviene con o senza il Covid-19».
La sua tesi si scontra con l’obbligo sempre urgente di non fare collassare il sistema sanitario…
«Ancora una volta l’obiettivo dichiarato è di salvare il sistema. Ora mi domando: fino a che punto saremo capaci di resistere a tutto questo e fino a quando questo sistema terrà ancora? La pandemia potrebbe anche avere lo scopo di farci riflettere sul rapporto che ognuno di noi ha con il mondo, con quello che ci circonda, con la salute e le relazioni. Non sarebbe quindi forse opportuno finalmente porsi la domanda se la vita ha più valore dal punto di vista quantitativo oppure qualitativo?»
Lei che risposta dà?
«Mi piacerebbe che a rispondere non fossero solo gli esperti o coloro che pensano di sapere già le risposte della popolazione. Sarebbe opportuno che a questa domanda ognuno potesse dare la sua risposta, assumendosi le proprie responsabilità individuali, compresa quella di prendersi il “rischio” di come vivere la propria vita, sempre nel rispetto di chi ci circonda».