Una sentenza del Tribunale federale porta alla luce il raggiro di un'impresa che teneva sede fittizia in Ticino
Non è un caso isolato, a giugno il Consiglio di Stato aveva negato i permessi come frontalieri ai dipendenti di una ditta di metalcostruzioni che aveva pure sede in una fiduciaria, ma manteneva casa madre e materiali in Italia.
BELLINZONA/LOSANNA - Ha tutta l’aria di una furbata per eludere le disposizioni sui prestatori transfrontalieri di servizi, i cosiddetti “padroncini”. La vicenda viene affrontata in una sentenza emessa lo scorso 10 agosto dal Tribunale federale di Losanna. Una furbata, anche per giudici che hanno respinto il ricorso di un cittadino italiano cui la Sezione della popolazione, nel giugno 2017, aveva negato il permesso per frontalieri.
I fatti - Nell’agosto 2016 l’uomo, residente in provincia di Sondrio, aveva chiesto tale permesso al Cantone per esercitare, come dipendente, l’attività di direttore tecnico al 50% presso una ditta, con sede in Ticino, attiva nel settore del montaggio di facciate continue. L’aspetto “curioso” è che la stessa persona, a Milano, era titolare e presidente di un’altra società, che fornisce gli stessi servizi.
Più che affini, la stessa cosa - Nel respingergli la domanda, la Sezione della popolazione ha tuttavia appurato come il datore di lavoro non esercitasse di fatto un’attività effettiva in Ticino. Tracce di questo sono successivamente emerse da controlli sul web, dove i siti delle ditte coinvolte erano sovrapponibili. Peggio ancora, i giudici cantonali (poiché il diniego è stato confermato anche dal Tribunale amministrativo cantonale) hanno accertato gli indizi di un trasloco fittizio d’attività da oltrefrontiera.
I trucchi del mestiere - Da controlli è infatti emerso che la ditta "ticinese", oltre al direttore tecnico valtellinese, faceva capo a ulteriori 15 lavoratori dipendenti, tutti frontalieri, molti dei quali precedentemente assunti dalla società con sede a Milano, dalla quale erano stati licenziati per poi venir riassunti in Ticino. I giudici hanno pure scoperto che la ditta “ticinese” non occupava inizialmente uffici propri, ma aveva sede presso una fiduciaria. Non cambia di molto i termini della questione il fatto che la ditta abbia in seguito affittato un semplice monolocale, «che dovrebbe fungere da ufficio - si legge nella sentenza - e non possiede alcun magazzino». Due furgoni e un monolocale, un po’ pochino per giustificare un’attività con 16 frontalieri operativi nell'ambito dell'edilizia. Per questo anche il Tribunale federale ha condiviso il giudizio del Tram, secondo cui il permesso per frontalieri era «volto a eludere l’applicazione delle disposizioni sui prestatori di servizi transfrontalieri, che limitano tali prestazioni al massimo di 90 giorni lavorativi annuali». La sentenza del Tf riveste particolare interesse anche per il fatto che conferma la prassi dell'Ufficio della migrazione sull'accertamento delle ditte "bucalettere".
Non è un caso isolato - Lo scorso giugno il Consiglio di Stato ha emesso una decisione simile su una fiduciaria ticinese presso la quale tiene sede una ditta di metalcostruzioni, la cui casa madre è in Italia. Anche qui le persone entrano come “frontalieri” pur essendo di fatto dipendenti all’estero e con tutto il materiale proveniente dall’Italia. La questione, ci spiega un avvocato, «è interessante non solo per questioni fiscali (e magari riciclaggio nei casi meno onesti) ma pure perché potrebbero esservi dei reati penali laddove sono state fornite indicazioni fuorvianti alle autorità per ottenere il permesso di lavoro».