I mali che portano alla depressione. Deborah Meili, consigliera comunale luganese, su Piazza Ticino.
La 26enne sta vivendo un burnout a causa dell'eccessivo sovraccarico personale. Con lei interviene la psicoterapeuta Claudia Crivelli Barella. Guarda il video.
LUGANO - «Mi sono caricata di troppi impegni. Avevo l'impressione di dovere fare di più, di più e ancora di più. Sentivo il peso di troppe responsabilità. Alla base, un mix di fattori. Se penso alla fine dei miei studi universitari, dovevo funzionare a tutti i costi... Poi è esploso il malessere». La 26enne consigliera comunale luganese Deborah Meili è stata ospite di Piazza Ticino. E ha raccontato il suo burnout, la sua depressione. L'outing lo aveva fatto a inizio ottobre in occasione di una seduta di consiglio comunale. «Deborah ha avuto coraggio – sostiene la psicoterapeuta Claudia Crivelli Barella –. Il male psicologico ci fa paura. Ci fa sentire inadatti. Condividere il proprio dolore con altri, lo rende un po' più gestibile».
Vicini a una svolta? – Ma perché c'è sempre una sorta di vergogna nell'ammettere di avere disagi psicologici? Perché la salute mentale conta meno di quella fisica? La psicoterapeuta riprende: «Viviamo in una società che ci vuole performanti. Perfetti. Come pegno consumiamo tantissimi psicofarmaci e ansiolitici. Il problema è evidente. In realtà sentiamo un po' tutti un bisogno di accettazione. Ci sono studi che dimostrano che chi va dallo psicoterapeuta sul lungo termine fa diminuire i costi della salute. L'aspetto fisico è collegato a quello mentale. Credo che in generale questo messaggio stia un po' passando».
«Non mi alzavo più la mattina» – Deborah non era più motivata da settimane. Anche nei confronti di attività che amava fare. «Il fatto di non avere voglia di alzarsi alla mattina mi preoccupava. Dopo mesi e mesi ho deciso di fare la fatidica chiamata a uno psicoterapeuta. I miei obiettivi? Vorrei imparare a conoscere meglio i miei limiti, a delegare e a dire di no. Dissociarmi dal perfezionismo, inoltre. Basta con la quantità, è molto più importante la qualità. Cosa mi aspetto ora? Io sono già contenta di essere sulla strada giusta e di avere fatto sentire alcune persone meno sole. Sarebbe bello se si aprisse un dialogo più ampio sul tema».
Identità troppo condizionata dal lavoro – Spesso il termine burnout viene associato all'ambito lavorativo. Erroneamente. «Si può essere in burnout anche senza avere un'attività lavorativa – fa notare Crivelli Barella –. Il problema è che nella nostra società riconduciamo la nostra identità eccessivamente al lavoro. Ma noi siamo anche altro. Noi siamo pensieri, passioni... Il lavoro è una cosa bellissima, ma è solo una delle attività che facciamo. Nella nostra società soffriamo per il troppo lavoro, ma anche per il lavoro che non abbiamo o che non ci piace. Il concetto è stato esasperato. In passato l'ansia esisteva. Ma non a questi livelli. Siamo sempre proiettati nel "fare", ci vantiamo di avere l'agenda piena. È estremamente pericoloso. Va trovato un equilibrio tra le nostre esigenze e quelle della società».
Il peso delle etichette – Deborah racconta la sua metamorfosi. «Sto vedendo le cose sotto un altro punto di vista. Quando ci prendiamo una pausa, e stiamo mezza giornata sul divano, ci sentiamo subito dei lazzaroni. Invece questo è un investimento su noi stessi». Eppure il peso delle etichette può essere enorme. Anche a livello sociale. «Forse la nostra è una realtà ancora periferica – conclude la psicoterapeuta – e quindi ci sono pregiudizi verso chi va in psicoterapia. Le casse malati? Mettono restrizioni su tutto. Però dall'anno prossimo ci sarà un'apertura verso la psicoterapia. Penso che in generale le cose stiano migliorando».
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