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LUGANOJuan Pablo Escobar: «Mio padre mi ha insegnato molte cose»

11.09.22 - 17:00
Il figlio del narcos più famoso al mondo ha partecipato a Endorfine Festival e ha raccontato la sua verità
TiPress
Juan Pablo Escobar: «Mio padre mi ha insegnato molte cose»
Il figlio del narcos più famoso al mondo ha partecipato a Endorfine Festival e ha raccontato la sua verità

LUGANO - Un bandito, un narcotrafficante, un omicida sanguinario. Ma «era mio padre». È una storia di grandi contraddizioni quella di Juan Pablo Escobar, figlio di un uomo che interrompeva le riunioni per abbracciarlo e che allo stesso tempo si macchiava le mani del sangue di centinaia di persone. 

La terza giornata di Endorfine festival si è aperta con la consegna del Premio "Marco Borradori - In tutto ciò che genera bellezza" a Sebastián Marroquín, nato Juan Pablo Escobar, autore del libro "Pablo Escobar, Il padrone del male". Oggi scrittore e architetto, ha ricevuto il riconoscimento omonimo al defunto sindaco di Lugano dalle mani di Carlotta Borradori, accompagnata da sindaco e vicesindaco Michele Foletti e Roberto Badaracco. Come comunicato da comitato e direzione di Endorfine, ne è stato insignito «per l'impegno a favore della pace e della riconciliazione nel suo Paese e con tutte le vittime del narcotraffico. Per aver dimostrato che anche da una storia oscura di sangue e di violenza può nascere un raggio di luce e di bellezza»

Intervistato da Marco Bazzi, Marroquín ha raccontato la verità che è riuscito a ricostruire dopo la morte di suo padre, avvenuta il due dicembre del 1993. Lo ricorda come l'uomo più povero del mondo e non come un eroe, un caso di successo, come è stato spesso dipinto in serie tv, film e libri. «Netflix ha fatto un bel lavoro. E devo ringraziarlo. Ma altri sembra vogliano ispirare i giovani. Sì, aveva soldi, ma non aveva la libertà». E il più delle volte anche la sua famiglia, che Pablo Escobar amava tanto, viveva in prigionia.

«Quando avevo sette anni mio padre mi ha detto "sono un bandito e questo è quello che faccio per vivere"». Lo stesso anno, Marroquín ha osservato la sua prima quarantena, sottolineando scherzosamente che non si trattava di Covid. Per diversi mesi è rimasto chiuso in un appartamento e non gli era permesso nemmeno di aprire le finestre.

Fino ai suoi 16 anni, la sua vita è stata una fuga. Quando la madre era incinta della sorella minore, la famiglia Escobar ha cercato rifugio a Panama, fuggendo con un elicottero privato dalla Colombia. «Siamo atterrati in mezzo alla giungla e ci siamo vestiti da turisti». Più tardi, insieme alla madre e alla sorella, ha cercato rifugio prima in Italia e poi in Svizzera, dormendo spesso a Lugano e stabilendosi infine a Losanna.

Oggi racconta che sentirsi in pericolo è il suo stile di vita. «Se non vivo davvero, allora preferisco morire». E per farlo scrive, racconta, si è fatto ambasciatore di pace. «Scrivo i miei libri per dare alle vittime la verità» perché spiega che solo in questo modo può chiedere loro il perdono per gli atti commessi da suo padre. Nel 2008 è tornato per la prima volta in Colombia. «È stato un processo molto difficile. Quando ho chiesto il loro perdono, mi hanno tutti guardato come fossi pazzo. Ma ho continuato a provarci e alla fine ha dato i suoi risultati».

L'ultima volta che ha parlato con suo padre è stato al telefono, quel due dicembre del '93. «Mi ha sempre spiegato che non bisogna avere un telefono. Diceva: "Se ti possono trovare, sei già morto". La prima e unica volta che ci ha chiamato è stato per dirci addio. Continuava a chiamare, non smetteva. Ha lasciato che lo trovassero».

«Mio padre mi ha insegnato molte cose», continua Marroquín, spiegando che era una persona molto ricca culturalmente. «Mi ha anche spiegato come suicidarmi. Diceva di prendere una pistola e di puntare all'orecchio destro. Non la bocca. Non la tempia». E Marroquín è convinto che nessuno, se non lui stesso, ha ucciso suo padre: «Non voleva essere preso vivo. Non voleva essere umiliato. Quando ho visto il suo corpo, il foro era proprio lì».

Oggi Marroquín ha una vita piena di impegni, grazie ai suoi libri, ai documentari su cui ha lavorato e anche grazie a tutti i lavori che sono stati creati e redatti sulla sua infanzia. È testimone della nascita del narcotraffico, dei cartelli e della morte. È cosciente che oggi non sarebbe dovuto essere qui, che dai suoi 16 anni «è tutto tempo extra». E quello che si porta dietro è una domanda: che padre voglio essere per i miei figli?

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