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CANTONE«Chi dice che sono solo parole non le ha mai vissute sulla propria pelle»

22.03.23 - 06:30
L'hate speech è sempre più diffuso. Abbiamo parlato di questa tematica con un esperto.
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Nel tondo il professor Federico Faloppa.
Nel tondo il professor Federico Faloppa.
«Chi dice che sono solo parole non le ha mai vissute sulla propria pelle»
L'hate speech è sempre più diffuso. Abbiamo parlato di questa tematica con un esperto.

LOCARNO - Hate speech. Discorsi d'odio. Una piaga di questa società moderna. Le parole come lame. Il web come valvola di sfogo. La rete e i social che fungono da amplificatori, dando spesso risalto a opinioni che prima erano confinate nei bar e condivise solo tra un numero ristretto di persone. Un megafono virtuale che spesso provoca danni inimmaginabili. Proprio ieri la Commissione federale contro il razzismo (CFR) ha infatti comunicato che in un anno ci sono state 163 segnalazioni per contenuti razzisti su social e media online, 39 dei quali penalmente rilevanti, di cui otto sfociati in una denuncia.

Per discutere di questa tematica - tanto attuale quanto spinosa - abbiamo sentito il Professore di Italian Studies and Linguistics presso il Department of Cultures and Languages all’Università di Reading (GB) Federico Faloppa che questo pomeriggio (inizio alle 17.30) sarà il relatore della conferenza "Discorsi d’odio: riconoscerli e contrastarli, nella società e a scuola" che si terrà nella sala conferenze del Dipartimento formazione e apprendimento (DFA) di Locarno.

Lei è tra i massimi esperti dell'argomento, quindi per prima cosa le chiediamo: cosa si intende esattamente per discorsi d'odio?
«La domanda è tutt'altro che semplice e richiede una risposta articolata. Di hate speech sentiamo parlare tutti i giorni. E di definizioni se ne trovano tante. Ma nessuna, a mio parere, appare esaustiva e completa. Anche la definizione tratta da dizionario, pur essendo chiara e coincisa, porta con sé domande che richiedono risposte. Bisogna poi differenziare il linguaggio d'odio punibile dal codice penale, con quello che ha una pertinenza nel codice civile. Vi è poi l’hate speech che non può essere sanzionato ma che risulta comunque tossico, come ad esempio gli stereotipi negativi, la ridicolizzazione delle minoranze o la deumanizzazione dell’altro. La questione della definizione è comunque aperta, anche perché l’hate speech continua a mutare nelle forme ed è materia ancora in fase di studio».

C'è chi usa parole d'odio nascondendosi dietro la libertà d'espressione. Lei che ne pensa?
«Calunnia, diffamazione, minaccia, e ingiuria, solo per citare alcune delle forme in cui si articola il discorso d’odio, non rientrano affatto nella libertà d’espressione ma sono materia per codici penali e civili. D’altronde in molti sistemi giuridici europei il diritto alla libertà di espressione non è assoluto. Ci deve essere un equilibrio con il ripudio delle discriminazioni etniche, religiose, nazionali e linguistiche. Un equilibrio - ammette l'esperto - delicato, ma fondamentale e che nasce dalla storia europea del Novecento. Il limite, quindi deve essere chiaro. Quando la parola diventa incitamento all'odio e strumento di discriminazione non deve essere protetta e anzi va criticata».

I social hanno creato il problema? O lo hanno solo amplificato?
«Il discorso d’odio non è certo un fenomeno recente, né è nato con i social media, come spesso si tende a pensare. Quando ho cominciato a occuparmi di "razzismo linguistico", e di come si possa discriminare attraverso il linguaggio, ho studiato la storia dei modi di dire e delle espressioni ingiuriose verso alcune minoranze che sono diffusi da secoli. È tuttavia indubbio che proprio sui social si sia assistito a una rapida intensificazione del fenomeno. Questo è dovuto anche ad alcune caratteristiche tipiche come la permanenza del messaggio, la sua diffusione potenzialmente incontrollabile e l'anonimato. Ma non solo. Il fenomeno è dovuto anche alla scomparsa dei modelli virtuosi e a una mancanza di responsabilità politica e civile di chi cavalca l’hate speech per gestire il consenso e manipolare l’opinione pubblica. Di chi tende a scrivere e parlar male in tutti i contesti perché "così fan tutti"». Il problema - sottolinea Faloppa - viene poi ingigantito anche «dalla crescente disinformazione che riduce i fatti a una miriade di punti di vista e dalla scarsa consapevolezza che molti hanno del mezzo linguistico e digitale». 

A volte vengono infatti usate espressioni d'odio in maniera inconsapevole. Anche dai media.
«Sul piano linguistico e formale, il discorso d’odio è molto più variegato di quanto si pensi. Ne fanno parte certamente le cosiddette "parole per ferire", come gli insulti razzisti. Ma non solo. Ci sono infatti anche forme più implicite come i registri sarcastici, la deumanizzazione del diverso o le argomentazioni che vogliono far condividere una conclusione. Di quante di queste modalità siamo davvero consapevoli?», si chiede retoricamente Faloppa. «Chi però dovrebbe essere consapevole di tutto questo è il professionista dell'informazione. Riprodurre, senza discuterli, contenuti d’odio, generalizzazioni e stereotipi non solo legittimano chi li diffonde, ma fanno un pessimo servizio d'informazione, infantilizzando l’opinione pubblica e producendo un allarme sociale ingiustificato». 

Come si può contrastare?
«Per prima cosa il fenomeno va conosciuto e studiato. Bisogna avere dati. Far emergere i casi che spesso non vengono nemmeno denunciati. È fondamentale avere la consapevolezza di cosa sia e di come si manifesti l'hate speech. Il lavoro è naturalmente complesso. Perché complesso è il contesto sociale e psicologico-emotivo in cui si può trovare la vittima. Bisogna muoversi con cautela, rispetto e capacità d’ascolto. E mostrare solidarietà e pretendere risposte chiare dalle istituzioni e da chi ha il compito di proteggere chiunque subisca una violenza o un reato. Perché gli effetti della violenza verbale possono essere pesanti. Non lasciano lividi o fratture, ma ferite profonde sul piano psicologico. Chi dice che "si tratta solo di parole" non ha mai provato davvero sulla propria pelle (e sulla propria psiche) l’hate speech».

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COMMENTI
 

Popi 1 anno fa su tio
“Hate speech” non è definibile e non esiste, chi decide cosa sia e come ne applica le responsabilità? Nel corso degli anni quante volte qualcosa che si diceva un giorno non è più accettabile quello dopo? Basti guardare paesi come il canada e il regno unito dove la gente viene arrestata per cose dette online che non son nemmeno offensive, è parola approvata dal governo - una cosa orwelliana ed autoritaria. Regoliamo cosa è ammissibile e decoroso dire a livello di società e non di legge a meno che si tratti di minacce dirette, solo i dittatori fanno il contrarioI. l segreto è trattare tutti con dignità, come si vorrebbe essere trattati dagli altri

carlo56 1 anno fa su tio
io comunque non minimizzerei o enfatizzerei nulla. L’unica consuderazione che mi pare palese è che nelle società occidentali che da decenni hanno raggiunto un certo benessere che a sua volta ha esteso i diritti dei singoli si è creata una situazione di paradosso: molti son divenuti egoisti, intransigenti, arroganti, pretestuosi e soprattutto si è perso il RISPETTO dell’altro, a tutti i livelli.

rosi 1 anno fa su tio
prima di parlare bisognerebbe riflettere e pensare se ciò che sta per uscire dalla mia bocca venisse rivolto a me, come mi sentirei? Le parole sono importantissime sin dalla primissima infanzia, le parole piene di rabbia fanno malissimo e non si dimenticano più. Chi siamo noi per giudicare gli altri? Nessuno è perfetto, ascoltare gli altri, discutere assieme ma non aggredire.
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