Antonio Crameri, originario di Poschiavo, è missionario in Ecuador: la sua quotidianità in un contesto di violenza e povertà. Il video.
LOSONE - Quando gli scappa la pazienza si lascia sfuggire un simpatico "santa polenta" o un pittoresco "porca vacca". Pane al pane, e vino al vino. Le formalità non fanno per Monsignor Antonio Crameri, 54 anni, nato a Locarno e di origini poschiavine. Non fosse un personaggio "sciallo" non potrebbe fare il missionario a Esmeraldas, in Ecuador. In un contesto contraddistinto da violenza e povertà. Lo abbiamo incontrato a Losone, ospite di don Jean Luc Farine, in occasione del lancio dell'ottobre missionario.
Monsignor Antonio, lei vive in un luogo in cui sembra non esserci un Dio.
«Sono missionario da ben 22 anni. Nella zona di Esmeraldas la violenza, di ogni genere, è all'ordine del giorno. Spesso è legata al narcotraffico. Negli ultimi tre anni questa violenza si è trasformata, ha il sapore della mafia».
Anche lei rischia la vita. O no?
«Sì. Vi racconto un aneddoto risalente allo scorso giovedì santo. A 800 metri dalla Cattedrale c'è una sparatoria. Poco dopo vedo l'assassino, ci incrociamo con lo sguardo. Ho temuto il peggio: di solito i testimoni non vengono lasciati vivi».
E allora perché lei è ancora qui a raccontarcelo?
«Credo mi abbia salvato il colletto bianco. In Ecuador, nonostante tutto, c'è ancora un grande rispetto per il religioso».
La vostra missione si dedica ai bambini, agli anziani, ai poveri. Eppure globalmente le cose non migliorano. Anzi. È frustrante?
«Diversi anni fa siamo stati assaliti da alcuni malviventi con la scusa di un battesimo. Uno degli assalitori mi domanda: "Padre, tu quante ore preghi al giorno?" Io rispondo: "Circa tre ore". E lui mi spiazza: "Non ti chiedo di pregare per me. Prega affinché i nostri figli non crescano come noi e non debbano essere costretti a fare quello che facciamo noi". Lì ho capito che anche in certe persone può esserci del bene».
Che ruolo gioca la povertà in questo contesto?
«Il mio predecessore diceva che l'albero della povertà ha come frutto l'ingiustizia. In Ecuador non possiamo confidare nemmeno nella politica. Già solo perché è coinvolta nel narcotraffico».
Le capita di avere paura?
«Eccome. Mi sono imbattuto spesso in situazioni al limite. La paura c'è. Allo stesso tempo mi fa andare avanti il fatto che non sono solo. Spero di essermi confessato quando arriverà il mio momento».
A proposito: chissà cosa le viene confessato in quanto uomo di Chiesa...
«Tante volte mi è capitato di raccogliere le confessioni di giovanissimi vittime di abusi da parte di patrigni, zii o padri. Spesso non vengono creduti dalle rispettive madri. In quel momento mi sento impotente perché c'è il segreto confessionale. Ma io cerco di convincere la vittima ad andare dalle autorità».
Mancano sacerdoti in Ticino. Accetterebbe un'offerta dalla Diocesi di Lugano?
«Penso di no. Mi mancherebbe l'adrenalina della missione. Sono una persona che ha bisogno di certe emozioni. E lo dico col massimo rispetto verso chi fa il sacerdote nella Svizzera italiana».