L'autore israeliano Eshkol Nevo, ospite a Endorfine, svela il significato di "Legami": 20 storie che raccontano un momento particolare.
LUGANO - Venti racconti, venti fotografie che immortalano un attimo della vita dei protagonisti. Non un momento qualsiasi, ma una svolta, uno spaccato cruciale della loro esistenza. In un momento drammatico per il suo paese, l’autore israeliano Eshkol Nevo analizza al microscopio, in “Legami”, l’impulso del desiderio e della passione che caratterizza la complessità dell'esperienza umana.
Esiste infatti un fil rouge che lega tutti i racconti e che trasporta il lettore in un’altalena di emozioni. Ospite il 15 settembre alle 11 al Festival Endorfine di Lugano, Nevo non si sottrae neppure alle responsabilità di un intellettuale in un momento storico delicato per il proprio paese.
Il titolo originale dell’opera è diverso rispetto all’edizione italiana: “Hungry Hearts" (cuori affamati). L’espressione riprende una canzone di Bruce Springsteen. Ma di cos’è affamato il cuore?
«Springsteen usa quest’espressione in modo ambivalente. All’inizio della canzone il cuore è affamato di avventure, desideri e nuovi inizi. Eppure, il protagonista finisce per tornare a casa. Cosa significa? Ognuno ha bisogno di un posto per riposare. Ognuno necessita di un luogo sicuro. Questa ambivalenza si ritrova anche nel cuore del libro».
Nei racconti esalta la complessità della vita. In particolare nella storia dei due anziani che vanno al cinema. Ognuno di loro non sopporta alcuni piccoli comportamenti dell’altro, eppure quando scelgono di allontanarsi capiscono che non possono fare a meno l'uno dell'altro.
«È la magia dei racconti brevi. Fotografano un momento importante della vita dei protagonisti. Un istante che rivela la verità. Quello che è dilatato in un romanzo qui viene compresso in poche pagine. Spesso durante una lunga relazione abbiamo bisogno di questi momenti per prendere coscienza di cosa è importante e cosa no. Trovo sia un formato fantastico per analizzare la propria vita».
I finali delle storie lasciano però spesso molti punti in sospeso. Il lettore si aspetta forse che vengano trattati più in profondità. Si aspetta qualcosa, come mai?
«Fa parte della gioia e della frustrazione del lettore: accettare il fatto che non si saprà il seguito del racconto. Parte del mio lavoro è immaginare cosa possa succedere dopo la fine del capitolo. Non condivido tutta la storia, ma solo la fotografia di un momento specifico. Il lettore può completare questo vuoto con la propria immaginazione. Molte persone mi hanno chiesto il finale. Io ho sempre risposto: “Ho il mio finale, ma se ho lasciato la storia in sospeso è perché voglio che tu immagini le diverse possibilità. Possiamo discuterne”. È uno scambio divertente che intrattengo spesso con i miei lettori».
Come nascono le storie nella sua testa?
«Ogni storia è ispirata da un momento preciso. Può essere il racconto di un amico oppure una notizia. Per esempio “Meno drammi possibile” è nata dalle parole di una madre che vedeva suo figlio dopo 15 anni di lontananza. Ho subito pensato che fosse una storia incredibile che merita di essere raccontata. L'inizio è sempre un sogno. Poi mi immagino la trama e costruisco la storia».
Il libro è stato pubblicato in Israele prima del 7 di ottobre. Come è cambiata la percezione di “Legami” dopo l’inizio della guerra?
«È affascinante. Prima della guerra il libro, che aveva un ottimo successo sul mercato, era descritto come un’esperienza dolorosa. I lettori definivano “Legami” come un pugno nello stomaco. Lo stesso libro, dopo il 7 ottobre, ha iniziato a suscitare emozioni diverse. Veniva percepito come confortevole, come un abbraccio. Eppure era lo stesso libro. Penso che questo cambiamento insegni molto sulla connessione tra il lettore e il momento specifico della lettura. Invece in Italia, dove il libro è stato pubblicato dopo l’inizio della guerra, molte persone hanno percepito il libro come se fosse una profezia. Mi chiedevano: “'Come hai potuto scrivere queste storie prima? Come lo sapevi?'”».
Il conflitto israelo-palestinese è presente nel libro. Impossibile separare la realtà di Israele dalla guerra. Eppure “Legami” è stato criticato per non aver affrontato direttamente la questione.
«Non mi sono mai sottratto dalle mie responsabilità in quanto scrittore. Ho sempre affrontato la questione. Sul Corriere della Sera mi occupo di una rubrica (“Diario di guerra”) in cui racconto l’esperienza della guerra. Durante l’ultimo anno però ho sentito che le persone avevano bisogno di un aiuto diverso. La grande sfida del mio paese è: come combattere Hamas, una terribile organizzazione terroristica, senza diventare come loro? In quanto artista, ho capito che questo è il terreno dove posso dare il mio contributo: ricordare alle persone che non è mai troppo tardi per comportarsi da esseri umani. In alcuni libri ho affrontato la questione più di petto. Eppure anche in “Legami” si può percepire il conflitto. È sempre presente perché questa è la nostra vita. Ogni cosa interagisce per osmosi con la guerra, è impossibile scindere il nostro quotidiano con il conflitto. È una presenza constante».
La speranza di vedere tornare a casa gli ostaggi, dopo tanta sofferenza, sembra ormai svanita. Come si può rompere questa spirale di violenza e odio?
«Nel breve periodo, si tratta di trovare un accordo per il cessate il fuoco. Condivido i principi del piano americano. Entrambe le parti devono accettarlo e devono concedere qualcosa all'altra. Sono convinto che sia un passo realizzabile. Se invece adottiamo uno sguardo sul lungo termine dobbiamo trovare un modo per convivere con i palestinesi. Ognuno deve perdonare ed essere empatico verso l’altro. Anche qui, sono convinto sia possibile».
La popolazione di Israele è esausta. Come leggere le migliaia di persone che si sono riversate in strada per protestare contro il governo del premier Netanyahu?
«Credo che le proteste siano una reazione emozionale, non una manifestazione politica. Un’espressione di solidarietà verso le famiglie degli ostaggi e delle vittime. La popolazione sente che i nostri leader non stiano facendo abbastanza. Ma non è l'unica ragione che ha spinto quelle persone a scendere in piazza. Siamo tutti molto interconnessi. Tutti conoscono qualcuno che è stato colpito direttamente dal 7 ottobre».
Il suo lavoro dopo la guerra è cambiato. Quale è il ruolo di un intellettuale durante un momento così delicato per la storia del proprio paese?
«Prima del 7 ottobre c’erano state molte manifestazioni politiche. In quel momento sentivo la responsabilità di scendere in strada, schierarmi con i manifestanti, scrivere articoli politici. Ero pronto a pagare il prezzo di questo attivismo. Dopo l’inizio della guerra ho sentito che il mio lavoro iniziava a cambiare: non tanto verso la politica, quanto a livello terapeutico. Aiutare le persone a cercare di metabolizzare i traumi».