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CANTONETerapia del gioco, quando i genitori “curano” i figli

30.12.24 - 06:34
Si applica in famiglie divenute monoparentali dopo un lutto o in genitori la cui quotidianità è stravolta da diagnosi terminale dei bimbi
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Terapia del gioco, quando i genitori “curano” i figli
Si applica in famiglie divenute monoparentali dopo un lutto o in genitori la cui quotidianità è stravolta da diagnosi terminale dei bimbi

LUGANO - Per affrontare le difficoltà, a volte anche gravi, dei bimbi dai 3 ai 12 anni entra in campo la “terapia del gioco” dove attori principali e “medici” speciali diventano i genitori. 

«La Play therapy si può applicare - ci racconta Isabella Cassina, dottoranda in Expressive Arts Therapy, docente universitaria, e nell’International Academy for Play Therapy (INA) - quando ci sono situazioni di disagio come in quelle famiglie divenute monoparentali dopo un lutto o in genitori la cui quotidianità è stravolta da diagnosi terminale del bambino o, sempre più spesso, quando le difficoltà si manifestano in ambito scolastico».

Su tali fattispecie si concentra «Il progetto che portiamo avanti attualmente in Ticino, “Play Therapy: Genitori agenti di cambiamento primario per i propri figli” (riconsciuto dall’UFAG) - dice Isabella - Affrontiamo anche realtà in cui la nascita o l’adozione di un secondogenito ha cambiato le dinamiche familiari».

Tra i casi più frequenti come detto quelli scolastici dove si «vedono famiglie in cui apparentemente non è avvenuto alcun “evento critico” scatenante, dove i genitori sono attenti, ma che sono in difficoltà», spiega Isabella.

«Mi torna in mente un caso in cui i genitori al primo incontro mi dissero che la scuola aveva segnalato l’eccessiva vivacità della figlia che, iperattiva, creava disagio a tutta la classe. Nostro compito è considerare il punto di vista di tutti». 

E qui che scatta, nell’ambito della Play therapy, la “Filial Therapy” dove un «professionista forma i genitori che saranno poi gli agenti di cambiamento primario per i figli e non i dottori o altro».

Tornando all’esempio, «la bambina era curiosa, piena di energia e amava le attività che la coinvolgevano fisicamente. Atteggiamento visto, in certi frangenti, come eccessivo».

A questo punto scattano «le “lezioni”ai genitori ai quali viene insegnato come gestire e come capire se la vivacità eccessiva celasse eccitazione, insicurezza o altro nel tentativo di stare al passo con i compagni - spiega - e così più gli sforzi di partecipare, socializzare e gestire la frustrazione fallivano, più lei si sentiva sbagliata e insofferente».

Ecco allora che, seguendo le indicazioni, il genitore «agisce da contraltare, permettendo alla bambina di trascorrere momenti di divertimento con la famiglia così da rendere il rapporto ancor più solido e accrescendo la fiducia in se stessa. Sentendosi più serena - ricorda Isabella - ha iniziato a comunicare e ad interagire in modo più efficace. La frenesia di dover fare ha lasciato posto alla capacità di prestare attenzione, aspettare il suo turno per prendere la parola e a seguire maggiormente le indicazioni della maestra. Insieme a questo, ha imparato a gestire meglio la frustrazione in tutti quei casi in cui non riusciva a leggere oltre l’apparenza».

In questo caso dunque il processo di cambiamento è partito dalla famiglia ma una simile evoluzione può partire anche dal contesto scolastico. «In entrambi i casi, questo approccio punta a cambiare l’adulto più che il bambino valorizzando le sue capacità ed espandendo le sue competenze nel gestire situazioni di tensione», dice Isabella. 

«Sono molte le famiglie che si rivolgono a noi ma mai abbastanza. Il Ticino offre una vasta panoramica di servizi per le famiglie: sportelli, formazioni, gruppi di sostegno, spazi di socializzazione. Tuttavia, ci sono molte famiglie che provano timore o vergogna a chiedere aiuto, che pensano di non avere tempo per essere parte attiva della soluzione o che credono che certe situazioni possano risolversi con il tempo», conclude.

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