In tempi di magra qualcuno ha pensato all'export. Ma c'è chi spiega: «Non ci è stato consentito di venderle in Ticino»
La replica della Cellula di comunicazione dello Stato maggiore cantonale: «Alcuni lotti non erano adeguatamente certificati»
LUGANO - Ben 25 tonnellate di mascherine esportate dalla Svizzera verso altri Paesi, proprio nel momento di maggior bisogno. E vendute a 10 volte (in alcuni casi anche oltre 20 volte) il loro valore. I dati resi noti negli scorsi giorni dall'Amministrazione federale delle dogane (Afd) hanno lasciato spazio a inevitabili polemiche. Secondo molti, ha vinto l’avidità a discapito dell’etica e del senso di responsabilità.
Dalla moda alle mascherine - Ma c’è pure chi, toccato evidentemente nel vivo, le critiche ha volute rispedire al mittente. Tra questi M.*, responsabile in una ditta ticinese che si occupa di import-export e che ha mantenuto e sta mantenendo contatti con i propri fornitori in Cina. «Dall’importare abbigliamento ci siamo trovati a importare mascherine. D’altra parte i cinesi sono stati velocissimi nel riadattare i propri settori produttivi per non doversi fermare».
Prezzo di costo, ma rifiutate in Svizzera... - E la sua ditta ha colto la palla al balzo. «Abbiamo fatto ordini di grossi quantitativi di merce. Sia mascherine FFP2 che quelle chirurgiche a tre strati. La nostra intenzione non era certo quella di speculare, anzi. Proprio quando qui iniziavano a scarseggiare, noi avevamo in arrivo le prime da proporre a 3,50 franchi l’una, le altre a 90 centesimi. Tolti i costi vivi, insomma, non ci rimaneva molto».
Queste mascherine, però, non hanno mai trovato mercato in Svizzera: «Ne abbiamo proposte circa 300mila al Cantone. Nonostante avessero passato i controlli doganali e fossero provviste di certificazione, sono state ricontrollate dal farmacista cantonale e rifiutate. Il motivo? La documentazione che le accompagnava era in cinese».
... quindi vendute all'estero - Per non rimetterci, l’azienda ha optato quindi per la soluzione più ovvia: «Le abbiamo vendute in Italia. Tutte e senza nessun tipo di problema». Anche i successivi tentativi sono andati a vuoto: «Ho proposto in seguito di importarne ulteriori milioni da distribuire alla popolazione, anche qui a prezzo di costo più le spese di trasporto, ma anche questa proposta è stata rifiutata».
«Non adeguatamente certificate» - Contattata, la Cellula di comunicazione dello Stato maggiore cantonale conferma l’arrivo di lotti non in linea con le disposizioni: «Siamo a conoscenza di alcuni casi di materiale di protezione che è stato respinto dai destinatari, siccome non adeguatamente certificato. L’assenza di una certificazione valida non consente in buona fede di ritenere che il prodotto sia efficace e sicuro, dunque conforme allo scopo per cui è previsto».
«Situazione eccezionale, ma la normativa non cambia» - In tal senso l’ufficio del farmacista cantonale rimanda a una comunicazione del 16 aprile: «L’eccezionalità della situazione attuale non sospende le normative in vigore e non legittima la vendita di prodotti non conformi», viene sottolineato.
Le disposizioni
Se dispongono di una certificazione CE come dispositivo medico, le mascherine soddisfano a priori i requisiti per essere importate, acquistate e vendute in Svizzera. Oltre al marchio CE, sulla confezione dovrebbero essere indicati anche la norma EN 14683 (per quelle chirurgiche) e quella EN 149 e il livello di protezione per quelle di protezione respiratoria e il tipo di mascherina. Dal 3 aprile 2020, con la modifica dell’Ordinanza 2 sui provvedimenti per combattere il coronavirus (Ordinanza 2 Covid-19), sono state consentite delle deroghe alla marchiatura CE, tuttavia solo a precise condizioni: se le mascherine chirurgiche non dispongono di una certificazione CE, possono essere importate, acquistate e vendute in Svizzera solo in presenza di una specifica autorizzazione di Swissmedic (per le chirurgiche), della SECO per quelle di protezione.
* nome noto alla redazione