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CANTONEUn gol per fuggire dal mostro dell'iperproduttività

23.08.24 - 06:30
"Ilva Football Club", in programma al Festival di narrazione di Arzo, racconta Taranto, il suo sacrificio ma anche la sua voglia di riscatto
Usine Baug & Fratelli Maniglio
Un gol per fuggire dal mostro dell'iperproduttività
"Ilva Football Club", in programma al Festival di narrazione di Arzo, racconta Taranto, il suo sacrificio ma anche la sua voglia di riscatto

ARZO - I numerosi premi ottenuti da "La mia terra" di Diodato, che parla di Taranto e dell'Ilva, l'acciaieria che ha segnato indelebilmente l'esistenza della città pugliese, sono la dimostrazione di quella «sorta di condivisione, di empatia» che si può ottenere quando si parla di temi importanti e lo si fa con la massima sincerità. Ad affrontare questa tragica vicenda a teatro sono Usine Baug e i Fratelli Maniglio. "Ilva Football Club" sarà messo in scena durante il Festival internazionale di narrazione di Arzo.

Come nel libro di Fulvio Colucci dal quale è tratto, "Ilva Football Club" usa la chiave di lettura sportiva per addentrarsi nel dramma del gigantesco impianto industriale e di ciò che sta significando per generazioni di residenti. «Lo sport è un argomento molto popolare» spiega Luca Maniglio «e riesce a far arrivare messaggi impegnati a generazioni che di questa storia non conoscono molto». Punto di vista condiviso anche dai tarantini: «Loro stessi ci hanno detto che trattare il tema in ottica sportiva, con le tematiche del sogno e della partita affrontata in maniera giocosa, rende il pubblico più interessato».

Il campo di calcio al centro della vicenda, spiega Ermanno Pingitore, «esiste davvero. È a pochissimi passi dall'Ilva e ci faceva piacere poter raccontare una storia che avesse una parte di sogno, che andasse oltre i problemi e oltre le montagne di minerale» accatastate accanto a quel rettangolo da gioco. La pièce è stata ispirata «molto largamente» dal romanzo di Colucci, ma a ciò si aggiunge «tanta ricerca sul luogo, attraverso interviste a ex operai, famiglie e abitanti di Taranto».

Una particolarità è che nessuno degli artisti coinvolti è originario della città pugliese. «Abbiamo cercato di dipingere questa realtà come se fossimo dei bambini, che immaginano la città attraverso i racconti degli altri e poi tramite la nostra stessa esperienza». Questa immedesimazione non è stata immediata. «È una dimensione estranea a quelle in cui siamo cresciuti, dove viviamo. Ma per noi era interessante parlare di tematiche che riguardano tutte le città di questo mondo» afferma Pingitore. La messa in scena sfrutta quindi voli nello spazio, ovviamente una partita di calcio «quasi alla moviola» e quello che è il processo produttivo dell'acciaio. «Quindi colori scuri, materiali rugginosi» aggiunge Maniglio «e un immaginario molto televisivo, tipico degli anni dagli Ottanta ai Duemila. Un tipo di comunicazione pubblicitaria, che ha fatto parte della narrazione dell'Ilva».

Nello spettacolo c'è «il dramma della produzione a tutti i costi», mentre il dilemma salute-lavoro, spiega ancora Pingitore, «è più televisivo che politico». Il mantra che ha permesso all'Ilva di proseguire è stato quello dell'iperproduttività, che ha portato l'Onu a inserire Taranto tra le "zone di sacrificio". Decisivo, nel percorso di formazione dell'opera, è stato il soggiorno in città, durato due settimane. «Abbiamo interagito quotidianamente con migliaia di persone, anche davanti a un caffè e senza parlare per forza dell'Ilva» fa notare Emanuele Cavalcanti. «Ci siamo resi conto delle problematiche ma anche della bella energia di questa città, che non si è mai arresa e che tutt'oggi cerca di risollevarsi, di creare un'alternativa all'industria siderurgica pesante».

C'era poi il rischio iniziale, spiega Claudia Russo, di «vedere Taranto solo in funzione dell'Ilva. Andare lì ci ha permesso di renderci conto che, dietro a una narrazione, esiste una città fatta di persone che hanno una vita esattamente come la mia e di portare avanti non solo il tema della morte, ma anche quello della vita. Taranto esiste, non solo in funzione del mostro. Sottrarsi alla costante vittimizzazione permette di parlare dei tarantini come persone, e non per il ruolo che gli è stato assegnato in questa vicenda».

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