L'avrebbe fatto sia il 22 maggio, sia il giorno della tragedia in cui hanno perso la vita 14 persone.
Il capo servizio dell'impianto, così come il titolare delle Ferrovie del Mottarone e il direttore d'esercizio, sono accusati di omissione dolosa di cautele aggravata dal disastro. Oltre che di omicidio e lesioni colpose.
VERBANIA - Il capo servizio dell'impianto della funivia del Mottarone, Gabriele Tadini, annotò il falso nel "Registro Giornale", dove vanno segnalati quotidianamente gli eventuali problemi tecnici, parlando di «esito positivo dei controlli» in particolare sul funzionamento dei freni. Lo avrebbe fatto sia il 22 che il 23 maggio, il giorno stesso della tragedia, quando la cabina numero 3 è volata via a velocità folle per la rottura della fune che la trainava.
Mentì in pratica, secondo la Procura di Verbania, malgrado avesse «sentito provenire dalla cabina un rumore-suono caratteristico riconducibile alla presumibile perdita di pressione del sistema frenante» che si ripeteva «ogni due-tre minuti» e da tempo.
Il nuovo dettaglio, che rende ancora più palese quanto fosse insicura quella cabinovia su cui salirono cinque famiglie, viene a galla dalla richiesta di custodia cautelare in carcere firmata dal procuratore di Verbania Olimpia Bossi e dal pubblico ministero Laura Carrera per Tadini, per il titolare delle Ferrovie del Mottarone, Luigi Nerini, e per il direttore di esercizio Enrico Perocchi.
Tutti sono accusati di omissione dolosa di cautele aggravata dal disastro, per quei forchettoni rossi inseriti in modo da disattivare i freni malfunzionanti. E ancora omicidio e lesioni colpose per la morte di 14 persone, tra cui due bimbi, e il grave ferimento del piccolo di 5 anni ricoverato.
Il particolare sull'ulteriore reato di falso ideologico e materiale, contestato al solo responsabile dell'impianto, arriva alla vigilia degli interrogatori davanti al giudice per le indagini preliminari Donatella Banci Buonamici che si terranno in carcere.
Tadini, dal canto suo, assistito dall'avvocato Marcello Perillo, è l'unico che ha reso ammissioni e ora è «distrutto, pentito e solo nelle mani di Dio». Si dice pronto a confermare le sue dichiarazioni domani, dopo aver delineato in un colloquio col legale la strategia difensiva, che così si può riassumere: «Ho corso il rischio di inserire quei forchettoni perché il problema ai freni continuava a bloccare la cabina, ma l'ultima cosa al mondo che pensavo è che si potesse rompere il cavo traente». Se il sistema frenante fosse stato attivo, però, la cabina sarebbe stata retta dal cavo portante.
Per la difesa di Tadini, comunque non sembra possibile che "la forchetta" che bloccava le ganasce possa aver influito sulla frattura della fune. Ipotesi questa, però, tra quelle al vaglio degli investigatori, così come il possibile legame tra il problema al sistema frenante, che causava quei «suoni» sentiti da Tadini, allarmi frequenti e blocchi, e la debolezza della fune che stava per schiantarsi. Ci si aspetta che sia il consulente esperto della Procura, Giorgio Chiandussi, a fornire una risposta certa che manca sulla causa dell'incidente.
Ciò che è certo, per i pubblici ministeri, è che i tre fermati devono restare dentro, perché continuando a lavorare in questo settore potrebbero rimettere in pericolo la «sicurezza pubblica» e reiterare il reato. Altri rischi, scrivono, sono i pericoli di fuga, già ben messo in luce nel fermo di due giorni fa, e di inquinamento probatorio perché potrebbero concordare le versioni.