Il pericolo degli Huthi da una parte, l'operazione "Prosperity Guardian" dall'altra. E sullo sfondo il canale di Suez. Facciamo il punto
Per farsi un'idea dell'importanza del canale di Suez, in termini puramente finanziari, è utile fare un salto indietro fino alla seconda metà di marzo del 2021. La mattina del 23 di quel mese - vittima degli effetti combinati di una tempesta di sabbia e delle forti raffiche di vento - la portacontainer Ever Given (un colosso lungo quasi 400 metri, per 59 di larghezza e 33 di altezza) si intraversò mentre attraversava le acque del canale, ostruendo il passaggio. Quel blocco sarebbe perdurato per 6 giorni e 7 ore, quindi fino al 29 marzo, con un costo - secondo le stime del quotidiano specializzato Lloyd's List - di 400 milioni di dollari all'ora.
Indirettamente, il canale si trova oggi a ridosso di un'altra situazione di crisi, con le acque del Mar Rosso che in queste ultime settimane, con l’intensificarsi degli attacchi di matrice Huthi, si sono fatte sempre più turbolente e hanno costretto diversi giganti della navigazione cargo a "fare le cose alla vecchia maniera", ossia abbandonare la rotta e, come si faceva fino a metà dell'Ottocento, circumnavigare il continente africano per raggiungere il Mediterraneo. E, di conseguenza, mettere in conto anche il fatto di dover ritardare le consegne di una decina di giorni circa.
Serve una risposta collettiva
Fattibile? Sicuramente. Accettabile? La creazione immediata di una coalizione difensiva ad hoc, annunciata dal dipartimento della Difesa degli Stati Uniti - che ha coinvolto altri nove Paesi: Regno Unito, Italia, Paesi Bassi, Francia, Canada, Norvegia, Bahrein, Seychelles e Spagna -, orienta questa seconda risposta verso un netto no. L'operazione, battezzata "Prosperity Guardian", è la risposta «a una sfida internazionale che richiede un'azione collettiva» e si pone come obiettivo di «affrontare le problematiche di sicurezza nel sud del Mar Rosso e nel golfo di Aden - ossia sulle coste dello Yemen - per garantire la libertà di navigazione per tutti i Paesi e per rinforzare sicurezza regionale e prosperità».
Alle parole del segretario della Difesa americano, Lloyd J. Austin - in visita ufficiale in Medio Oriente proprio in questi giorni - ha fatto eco il World Shipping Council, che ha tirato un primo sospiro di sollievo dopo l'appello lanciato solo pochi giorni fa. «La missione di questa task force è fondamentale per proteggere chi naviga e per difendere il principio fondamentale della libertà di navigazione», si legge in una nota pubblicata dall'associazione, che rinnova però la "chiamata" diretta alla comunità internazionale per un impegno a tentare «ogni sforzo diplomatico» per garantire la sicurezza dell'intera regione che, come detto, costituisce uno snodo irrinunciabile per il commercio globale.
L'attacco alla Swan Atlantic
Il "casus belli" che ha innescato l'operazione è da ricercare nell'attacco diretto, ieri, alla nave norvegese M/T Swan Atlantic, finita nel mirino dei ribelli yemeniti. La petroliera è stata presa di mira «da un drone suicida e da un missile anti-nave», lanciati da una regione dello Yemen controllata dagli Huthi, e in suo soccorso è intervenuto il cacciatorpediniere USS Carney. L'attacco è stato poi rivendicato dagli stessi Huthi, secondo i quali la nave sarebbe stata legata a Israele. Una versione figlia di un'informazione errata riportata dal sito MarineTraffic e, scrive la CNN, poi smentita dalla Inventor Chemical Tankers, la società proprietaria della petroliera. Nella rivendicazione, gli Huthi hanno aggiunto che non sarà arrecato danno alle navi di passaggio, con l'eccezione di quelle dirette verso porti israeliani.
L'aumento degli attacchi di matrice Huthi nel Mar Rosso non è limitato a queste ultime settimane. Un incremento è stato segnalato da parte della Marina statunitense a partire dal 7 ottobre scorso, dopo i fatti che hanno ridestato la fiamma del conflitto tra Israele e Hamas. E le navi americane, sebbene non siano state bersaglio, sono intervenute a più riprese per abbattere missili e droni. Agli inizi di dicembre, il Pentagono aveva etichettato come «irresponsabili» le azioni del gruppo zaydita. E già in quel caso non aveva, esplicitamente, escluso rappresaglie: «Se decideremo di agire sarà quando e dove decideremo noi».