Oleksandra Romantsova, premiata nel 2022 con l'Ong “Center for Civil Liberties”, ci racconta il giorno che ha cambiato la storia del paese.
Dopo 10 anni Kiev insegue sempre lo stesso sogno: «Sentiamo che non siamo soli quando lottiamo per qualcosa di giusto».
KIEV - Nessuno credeva che avrebbero sparato sui manifestanti. E, invece, i cecchini appostati sui tetti degli edifici che circondavano piazza Maidan a Kiev, il 20 febbraio del 2014, aprirono il fuoco. La sera dozzine di corpi (alcune fonti parlano di una cinquantina, altre di un centinaio) giacevano senza vita in quello che è diventato il luogo simbolo della rivoluzione ucraina di Euromaidan. Il giorno più sanguinoso delle proteste però è, ancora dopo dieci anni, avvolto nell’ombra. Non furono infatti solo i tiratori scelti della polizia a sparare sui manifestanti: quel giorno, secondo quanto si è potuto appurare in seguito, a compiere la strage furono anche militari arruolati dall’opposizione - decisa a fare scoppiare una guerra civile.
Il dolore di un massacro inspiegabile
Calcoli politici freddi e disumani che non cambiano l’orrore che ha vissuto chi, quel giorno, era in piazza ed ha assistito al massacro. «Quando hanno iniziato a sparare non potevo crederci. La reazione dei manifestanti è stata però coraggiosa, le persone si sono unite ancora di più nella lotta», ci ha raccontato Oleksandra Romantsova. L'attivista ucraina di 38 anni è stata premiata nel 2022 con il Premio Nobel per la Pace con l'Ong a difesa dei diritti umani “Center for Civil Liberties”, per la quale lavora in qualità di direttrice esecutiva.
Oleksandra non si dimentica di quel 20 febbraio del 2014, malgrado i dubbi che hanno circondato i martiri di Euromaidan durante gli anni seguenti. «Per proteggerci abbiamo incendiato i copertoni delle auto così da creare un muro di fumo e impedire ai cecchini di spararci». A dieci anni di distanza ripercorriamo attraverso la sua testimonianza il significato del movimento di protesta contro la politica anti-occidentale del presidente ucraino Viktor Yanukovych.
La corruzione e il mancato accordo con l'Ue
Ma andiamo con ordine e riavvolgiamo il nastro per capire l'escalation di rabbia e violenza che ha portato a quel massacro. Tutto iniziò dopo il rifiuto del presidente di firmare un accordo di associazione con l'Ue. Un documento che avrebbe dato il via a una nuova politica più vicina a Bruxelles che a Mosca. «Lavoravo in una banca internazionale a Kiev quando le proteste sono scoppiate. Mi occupavo di garantire i finanziamenti a piccole e medie imprese».
Un impiego non semplice, nell’Ucraina di Yanukovych. «Il sistema era corrotto. Una corruzione che era visibile a tutti. Lo Stato aveva sviluppato una struttura legata alla criminalità che distruggeva le speranze e le possibilità di successo delle persone». Ed è proprio questa frustrazione che ha spinto le persone a scendere in piazza.
La delusione ha acceso la miccia
Yanukovich ha continuato a trattare con Bruxelles per trovare un accordo di associazione tra Kiev e l’Ue. «Ma era solo una farsa, non aveva nessuna intenzione di “tradire” il suo alleato Putin», incalza la 38enne. Il 21 novembre del 2013 il presidente ucraino annuncia l’interruzione dei negoziati. La goccia che ha fatto traboccare il vaso mandando in frantumi le speranze di molti ucraini che vedevano «gli accordi come l’unica soluzione per dare finalmente una svolta al paese».
La delusione ha poi acceso la miccia. «Tutto è iniziato con un semplice tweet che invitava la popolazione a recarsi in piazza: “Portate ombrelli, tè, caffè e amici”. Gli studenti hanno accettato l’invito. Le proteste si sono diffuse poi in altre città ucraine». La repressione violenta della polizia sui primi gruppi di manifestanti ha creato un vero e proprio moto rivoluzionario.
Ospedali da campo e call center
La classe media e i piccoli imprenditori frustrati dalla corruzione che condizionava il governo si sono uniti alla rabbia della popolazione. «L'obiettivo era portare in piazza il maggior numero di persone. Abbiamo organizzato un call center per aiutare i manifestanti che venivano arrestati. Chi era in difficoltà ci chiamava per chiederci consigli giuridici e altre indicazioni pratiche. Noi ci occupavamo di fornire anche gli avvocati pro bono».
Di fronte alle molte difficoltà logistiche la piazza si è subito organizzata. «Avevamo bisogno di un ospedale. Le strutture sanitarie non erano più sicure». La polizia minacciava infatti i medici per ottenere informazioni sui pazienti. «Chi presentava ferite, traumi o contusioni riconducibili agli scontri con la polizia, veniva arrestato. Sono stati organizzati ospedali da campo, punti sanitari e altre strutture mediche in tutta la piazza».
«Sì, ho avuto paura»
Il coraggio di Oleksandra non è venuto a meno neanche quando tra i manifestanti, dopo tanti feriti, si sono cominciate a contare anche le prime vittime. «Sì, ho avuto paura, ma era una sensazione strana. Avevo paura quando ero a casa oppure in ufficio, non quando scendevo in piazza. Il nostro slogan era: “Se hai paura, vieni a Maidan e aderisci alle proteste”».
L'energia che si respirava in piazza era contagiosa. «Mi sentivo parte di qualcosa di grande». Un movimento che secondo Oleksandra ha unito gli ucraini sotto un unico obiettivo. «Vedevo gente di tutte le classi sociali e di religioni diverse lottare unite. Partecipare a queste proteste mi ha sempre aiutato a scacciare la paura».
La repressione è stata benzina che ha tenuto accese le proteste
Il movimento ha continuato anche dopo il 20 di febbraio fino alla fuga notturna del presidente che, durante la notte tra il 21 e il 22 febbraio ha lasciato Kiev per rifugiarsi a Mosca. «Il Parlamento e le autorità statali hanno contribuito a mantenere l'entusiasmo della rivoluzione. Ogni volta che prendevano una decisione contro la piazza, la reazione era opposta a quella che si aspettavano.
Gli attacchi, le leggi che proibivano i raduni e altri impedimenti hanno gettato benzina sulla rabbia della popolazione. «La violenza sproporzionata della polizia ci ha spronato a non abbandonare la lotta. Questi sono i sistemi russi. Abbiamo incontrato simpatizzanti russi che ci raccontavano cosa subivano a Mosca. Picchiare per disperdere la folla. In Ucraina però la situazione è diversa. La nostra indole ci ha sempre spinto ad aderire a una lotta, non a ritirarci».
Cosa è cambiato dopo 10 anni
Ora, a dieci anni di distanza da quegli avvenimenti, il paese continua a lottare per gli stessi sogni e le stesse ambizioni; ma con una convinzione in più. «Sentiamo che non siamo soli quando lottiamo per qualcosa di giusto». Maidan ha anticipato gli orrori dell’invasione che avrebbe scatenato Putin otto anni più tardi e ha in qualche modo «forgiato il nostro carattere. La rivoluzione del 2014 ci ha preparato e ci ha permesso di farci trovare pronti».
Oleksandra cita tante piccole abitudini, come curare le ferite, sapere costruire una molotov, oppure preparare un ospedale da campo. Tutte competenze essenziali per sopravvivere a un’invasione. «La guerra in Crimea ci ha colti impreparati, eravamo disorientati. Ma dopo l’invasione del Donbass ci siamo fatti trovare pronti. È stata un’esperienza che ci ha preparato alla lotta e ci ha dato la certezza che possiamo vincere».