Il dinamico duo dell'indie nostrano ci racconta, fra alti e bassi, com'è arrivare ai tre lustri d'età
LUGANO - Di mail in mail, di rimpallo in rimpallo - e c'entra anche la pandemia - non è stato semplice riuscire a beccare i nostrani Peter Kernel per un'intervista già pianificata da tempo ma che, alla fine, si è protratta al limite della data di scadenza. Ma alla fine, ce l'abbiamo fatta.
L'occasione era il compleanno numero 15 della band indie per eccellenza del panorama nostrano che, scherzando con Aris (Bassetti) e Barbara (Lehnhoff) è ormai quasi diventato il... numero 16.
15 anni sono tanti, e il vostro progetto di dedicarvi alla musica è stato totale, in tutti i sensi. Come ci si sente da veterani della musica ticinese?
Ci sentiamo ancora molto motivati artisticamente, e per fortuna ancora lontani dall’aver capito tutto. Abbiamo sempre dato sfogo a tutti i nostri dubbi, alle nostre preoccupazioni e alle nostre curiosità senza compromessi di alcun tipo.
Non abbiamo mai provato a piacere a tutti e questo ci ha permesso di trovare più in fretta il nostro linguaggio comunicativo e la nostra identità musicale. È vero che non siamo più dei ragazzini, ma abbiamo mille idee nuove ogni giorno, quel che manca è il tempo di fare tutto a modo.
In 15 anni, oltre pubblicare album, abbiamo creato un’etichetta musicale, abbiamo creato un festival, abbiamo imparato a guidare benissimo e a lungo, abbiamo imparato bene il francese, l’inglese e un po’ il tedesco (grazie ai tour), abbiamo scritto colonne sonore di film, abbiamo imparato a essere aperti alle novità e non abbiamo mai smesso di essere curiosi eppure ci sembra di essere sempre all'inizio. Sempre pronti a metterci in gioco.
Come siete cambiati? Pensavate di arrivare dove siete arrivati oppure no? Che aspettative vi eravate dati?
Personalmente no. Abbiamo iniziato senza nessun tipo di aspettativa; volevamo solo divertirci. Poi abbiamo capito che la musica era un mezzo potente per esprimere delle sensazioni che a voce sarebbero state incomplete, e che dall’altra parte c’era qualcuno che si identificava con la nostra visione della vita.
Quindi abbiamo cominciato a suonare tantissimo e non abbiamo più smesso. Nel mezzo ci siamo noi come individui, con le nostre paturnie, le nostre gioie e tutto quello che può succedere quando sei sulla strada 6/7 mesi all’anno, lontano da casa, in mezzo a gente ogni giorno nuova, assaggiando un sacco di cibi diversi, dormendo in 200 stanze di albergo all’anno, parlando con tutti quelli che prima e dopo il concerto vengono a salutarci e a raccontarci la loro storia…
Impossibile non crescere. Come persone e come artisti. Ma abbiamo lavorato tanto per stare in piedi e abbiamo superato molte difficoltà; a guardare indietro ci sembra quasi un miracolo che siamo ancora qui. Vivere di musica originale e non commerciale partendo da una regione come la nostra a volte è molto complicato, ma è fattibile.
In stile macchina del tempo, che consiglio dareste ai voi stessi più giovani di 15 anni fa?
Forse consiglieremmo di non far caso ai gelosi o ai rosiconi. Consiglieremmo anche di credere di più in quello che stavamo iniziando a fare senza farci prendere da paure di un lavoro precario. Tanto alla fine cosa c’è di sicuro?
Siete molto attivi nell'area francofona fra Romandia e soprattutto in Francia. In tutti questi anni avete mai pensato di trasferirvi all'estero? Se sì, perché non lo avete fatto?
Non ci siamo mai trasferiti perché gli amici e le famiglie sono qui, e inoltre la Svizzera è tattica geograficamente parlando. E poi è bellissima.
Raccontateci una soddisfazione grandissima e una delusione (più o meno) grande della vostra carriera sin qui.
Sicuramente essere nominati al prestigioso Premio Svizzero della Musica è stata una grande soddisfazione. Ci siamo ritrovati in mezzo a pionieri di alcuni generi, a grandi direttori d’orchestra, a ricercatori sonori e grandi nomi della musica svizzera.
La delusione più grande per ora possiamo dire che sia proprio quello che questa pandemia ha fatto emergere. Abbiamo sentito che tra la gente la sensazione è che ci sono mestieri come il nostro che sono minori. Ci siamo sentiti quasi fuori luogo a essere dei musicisti professionisti in questo momento storico. Come se noi potessimo fare nulla per migliorare la situazione, come se non servissimo, anzi come se fossimo un peso a livello finanziario.
Eppure in questi mesi abbiamo ricevuto moltissimi messaggi di gente che ha trovato sollievo con la nostra musica, che si è ricaricata, che si è esaltata e ispirata. Ma questo è il potere della cultura e dell’arte in generale. Per questo, quando sentiamo parlare di “attività superflue”, siamo convinti che si stia facendo un grandissimo errore e bisognerebbe correre ai ripari in fretta se vogliamo cercare di mantenere una certa salute emotiva e mentale nella gente.
E, già che ci siete, un concerto che è andato ben oltre le aspettative e uno che è andato... disastrosamente?
Difficile da dire, abbiamo fatto più di 700 concerti in Europa, Stati Uniti e Canada e la memoria inizia a confondersi. Ricordiamo molto volentieri uno dei primi concerti fatti al Kilbi festival di Düdingen nel 2006.
Suonavamo di pomeriggio, non c’era molta gente a vederci e ci siamo rimasti male, ma negli anni a seguire siamo stati contattati da quasi tutte le persone presenti per suonare a un concerto organizzato da loro. Ma in generale siamo sempre stupiti dell’affetto che riceviamo da pubblico.
Suonare dall’altra parte del mondo e sentire cantare le tue canzoni è qualcosa d'impagabile e inaspettato.
Di quelli andati male ce ne sono parecchi: una volta in Canada ci siamo presentati al locale e non abbiamo suonato del tutto perché il gruppo principale era stato arrestato il pomeriggio e il promoter non voleva rischiare di fare la serata solo con noi.
Un’altra volta in Italia abbiamo fatto il soundcheck e appena finito è arrivata una tempesta così potente che hanno annullato tutto e siamo tornati a casa, ma la volta peggiore forse è stata ad Annecy in Francia.
Dovevamo suonare a un bellissimo festival in riva al lago, abbiamo fatto il soundcheck e andava tutto bene finché dietro al backstage, a pochi passi da noi un ragazzino si è tuffato ed è morto. Il festival è stato annullato, hanno barricato l’area e nella confusione siamo rimasti bloccati vicini al corpo del ragazzo. Quando l’auto del coroner è arrivata, ci hanno lasciati passare e siamo subito partiti in direzione del Belgio dove il giorno dopo avremmo dovuto suonare.
Abbiamo guidato tutta la notte e sopra la nostra testa si è abbattuta una tempesta violentissima e per sdrammatizzare qualcuno di noi ha detto: «Chissà… magari domani prende fuoco il palco». Il giorno dopo durante il soundcheck ha preso fuoco uno dei fari posti sopra di noi. È stato un weekend impegnativo.
Per l'anniversario avete, giustamente, anche un album in uscita. Ce lo raccontate?
Esatto, a dicembre abbiamo pubblicato un vinile contenente 24 canzoni non finite, o che non hanno trovato posto nei dischi ufficiali, oltre che a demo, versioni alternative e dal vivo. Una sorta di “peggio di” (o "worst of") dedicato soprattutto ai fan delle prima ora. Quelli che ci hanno seguiti in tutti questi anni. Volevamo regalargli anche la parte che non si vede di noi ma che ci ha dato forma.
Ognuna di quelle canzoni è stata importante, nonostante non sia andata a buon fine. Se qualcuno si avvicina a noi per la prima volta e sente questo disco penserà che siamo degli incapaci, ma ne valeva la pena di festeggiare 15 anni di attività alla nostra maniera.
Ultima, difficilissima, domanda. Dove (e come) saranno i Peter Kernel quando scoccherà il loro 30esimo anniversario?
Probabilmente su un palco a suonare seduti su una sedia, con un té caldo nascosto dietro all’amplificatore.