In "Becoming Giulia" Laura Kaehr ha seguito la prima ballerina del Balletto di Zurigo Giulia Tonelli nel suo riappropriasi del corpo
LUGANO - Un movimento, un ballo, un corpo che torna a muoversi. È la storia di Giulia Tonelli, prima ballerina del Balletto di Zurigo, tornata sul palco più forte e più ispirata che mai dopo la nascita di suo figlio, che per mesi l'ha costretta a restare fuori dalla scena.
Raccontata nel documentario "Becoming Giulia" dalle forti e commoventi immagini della regista ticinese Laura Kaehr, Giulia Tonelli dimostra che essere madre non è un punto di arrivo, ma di partenza. Insieme a lei, lo spettatore segue la riappropriazione di un corpo, e il dolore e lo slancio che ne conseguono.
In occasione dell'uscita odierna del film nelle sale ticinesi - dopo l'anteprima di ieri sera a Muralto alla presenza della regista - abbiamo intervistato la regista e la ballerina.
Come hai scelto il tema del ballo? Lo conoscevi già?
L.K. «Io sono una ex ballerina. Quindi sono cresciuta più o meno come Giulia in un'accademia di danza, prima in Ticino e poi a Cannes. Nei miei vent'anni ho lavorato come ballerina e come attrice. Si tratta proprio del mio mondo. Come regista, ho sempre voglia di raccontare delle cose e dei mondi che conosco e che hanno una voce universale».
Come vi siete conosciute?
L.K. «Ho chiuso la mia carriera da ballerina nel 2008, quando ho cominciato i miei studi da regista. Ma continuavo ad andare ai balletti dell'Opera di Zurigo e a molti altri per il mondo. Vidi Giulia forse sette anni fa ballare "Messa da requiem". Le scrissi su Facebook: "Ehi, ti ho appena vista ballare, sei fenomenale, tornerò sicuramente a vederti". E lei mi ha risposto: "Chi sei? Cosa fai? Prendiamoci un caffè". Così abbiamo cominciato a ritrovarci annualmente».
E proprio al tavolino di un bar è nato il documentario...
L.K. «Nel 2019, due mesi dopo la nascita del bambino, ci siamo ritrovate, come al solito. E dal modo in cui mi parlava della sua sorpresa, della sua apprensione e della sua interrogazione a come sarebbe stato il dopo, abbiamo capito tutte e due che era un soggetto molto forte per un documentario».
Com'è stato immergersi nell'intimità di una persona per ben tre anni?
L.K. «Non è stato semplice. Le emozioni che vive lei, le vivi anche tu. Era difficile esserci nei momenti più duri. Nei momenti belli, quando il bambino ha cominciato a parlare, è stato una gioia. Ma i momenti di stress li vivi come un travaglio, perché da un lato sai che fa parte del gioco, ma dall'altra parte c'è tutta la nostra amicizia».
Com'è stato essere seguita così tanto tempo da una telecamera?
G.T. «È stato in alcuni modi la cosa più naturale del mondo e in altri la più stressante. È vero che Laura era diventata una presenza quasi "naturale" e ci sono state volte in cui mi dimenticavo fosse con me, ma al mio lavoro avere tutta quell’attenzione addosso mi ha sicuramente esposta a più tensione da parte di colleghi o altri. A casa lo stress riguardava mio figlio… nessuno ci insegna a diventare mamme e la telecamera era un elemento estraneo».
Perché hai deciso di condividere la tua esperienza?
G.T. «Ricordo una telefonata di Laura e la proposta di fare un documentario. All'epoca l'idea di un documentario esclusivamente su di me non era ancora maturata: Laura mi aveva spiegato di voler seguire tre donne e una di queste sarei stata io. Probabilmente se avessi saputo cosa sarebbe diventato questo documentario mi sarei tirata indietro».
Che cosa ti ha lasciato l'esperienza con Laura?
G.T. «L'esperienza del film in sé non so ancora cosa mi abbia apportato, ma dallo sguardo o dalle parole di chi lo ha visto e scrive a Laura o a me capisco che forse davvero porta un messaggio a cui in tanti possono appellarsi e questo mi rende felice. È difficile soffermarsi troppo a chiedersi di questa esperienza perché come ogni cosa della vita l'ho vissuta appieno, dando anima e corpo e ora non ci penso più. Non voglio dar troppo peso all'attenzione che ne deriva: cerco di continuare a dare il massimo nelle sfere importanti della mia vita e se devo raccogliere i frutti di questo film lo farò. Ma più in là…».
Hai mai sentito, a un certo punto della tua vita, la necessità di riappropriarti del tuo corpo?
L.K. «Sì, ma non in una circostanza così bella come quella di Giulia. Quando feci i trattamenti per rimanere incinta ho proprio sentito come se stessi dando via il mio corpo a un processo esterno, dove non sai nemmeno come reagirai. È una cosa molto pesante. Purtroppo non ho avuto la fortuna di rimanere incinta. Il mio percorso verso la maternità è stato traumatico. Ma è una questione che riguarda tantissime donne. Anche Giulia ne parla nel film. È un processo che viene minimizzato dai medici, dalla società, da tutti. Mentre una donna si sottopone a questi trattamenti deve comunque continuare a lavorare, ad avere una bella faccia. Ho attraversato questa fase mentre giravo il film. La bellezza di tutto questo è che anche questo faceva parte della nostra intimità. Ci siamo aiutate».