"Drum to Death" è la nuova sperimentazione firmata Peter Kernel: «Un omaggio al ritmo e ai batteristi ospiti dell'album»
LUGANO - Undici batteristi per altrettanti brani, undici modi d'intendere il ritmo sui quali sono state create delle canzoni. È "Drum To Death", il nuovo album firmato Peter Kernel. Un esperimento sonoro che segna il ritorno dello storico progetto musicale di Aris Bassetti e Barbara Lehnhoff, sempre per l'etichetta ticinese On The Camper Records. Il 13 ottobre è uscita la versione digitale, mentre per quella fisica (cd e vinile) bisognerà aspettare dicembre.
Bernard Trontin (The Young Gods), Cosmic Neman (Zombie Zombie), Beatrice Graf, Domi Chansorn, Ema Matis, Tam Bor, Hugo Panzer, Julian Sartorius, Kevin Shea (Storm & Stress, Lydia Lunch), Simon Berz e Simone Aubert (Hyperculte, Massicot): questi sono i batteristi che sono stati interpellati per "Drum To Death". Per saperne qualcosa in più abbiamo fatto quattro chiacchiere con Aris Bassetti.
Quale molla vi ha spinto a sviluppare questa idea? È l'aver compreso che la ritmica è una componente fondamentale della vostra musica o c'è qualcosa di più profondo, filosofico, come la ricerca del battito primordiale?
«È un po' tutte queste cose. Il progetto nasce durante il lockdown, tra date posticipate mille volte e un fermo che ci ha fatto sentire un po' persi e inutili. Non potendoci nemmeno trovare per suonare, ci siamo detti: "Proviamo a mettere in piedi qualcosa legato al ritmo, che è quello che ci manca in questo periodo».
Quindi avete chiesto a questi batteristi d'inviarvi qualcosa?
«Alcuni li conoscevamo bene, altri meno. Abbiamo provato e tutti hanno mandato qualcosa. Chi registrazioni fatte in casa con lo smartphone, con quello che aveva a disposizione perché non poteva andare in studio; altri hanno registrato le singole tracce così da darci più controllo. Poi per fortuna è ripartito tutto e questo progetto è stato accantonato per un po' (a beneficio di altri come Mortori, Camilla Sparksss eccetera».
Vi è arrivato del materiale che non vi aspettavate?
«Certo che sì!» (ride, ndr) «C'è chi ha mandato solo delle percussioni, chi della batteria elettronica perché aveva solo quella a disposizione, chi ha inviato un ritmo che all'inizio non abbiamo capito e che solo in un secondo momento ci ha svelato la sua logica...».
Quando l'avete ripreso in mano?
«Dopo che era stato messo in piedi il tour di presentazione, che è partito sabato 14 ottobre (ride, ndr). Le date c'erano, ma il disco no. Così a inizio settembre ci siamo chiusi in studio e abbiamo fatto quello che potete sentire, praticamente in un mese».
Uno sforzo creativo non indifferente...
«È stato mentalmente devastante. Ci ha prosciugato. Anche perché eravamo alla fine di un periodo già bello intenso con tutti gli altri nostri progetti. Quindi la lavorazione dell'album è stata sia piacevole che traumatica. Ma questo lo è sempre: togli una parte di te e la butti in pasto al pubblico».
Possiamo dire che in queste settimane porterete dal vivo un prodotto con il quale state ancora facendo conoscenza?
«Assolutamente sì. Ci stiamo rendendo conto pian piano di quello che abbiamo sviluppato».
Nel disco ci sono 11 batteristi, ma in concerto?
«Questo è stato un altro dei problemi che abbiamo dovuto affrontare. Facciamo una residenza con undici batteristi? Poi tra problemi logistici e costi abbiamo capito che non era possibile. Quindi ci siamo detti: l'attitudine del tour sarà un'altra. Quindi un solo batterista e brani semplificati, scarnificati, molto più diretti. Una traduzione del materiale dell'album per chitarra, basso e batteria. Punto».
Cos'è, in definitiva, "Drum To Death"?
«È il nostro modo di rendere omaggio al ritmo e al battito del cuore. Ma è anche un omaggio al batterista ospite, e il brano è quello che pensiamo di lui. Ci siamo aperti al suo mondo sonoro e nel testo ci sono le nostre considerazioni o abbiamo inventato una storia che lo (o la) riguarda».