«Templi e palazzi hi-tech, cliniche super futuristiche e sciamani, la Mongolia è sorprendente»
«Nella Repubblica Democratica del Congo mi sono beccato una guerra civile, ho avuto paura».
DUSHANBE - Nato a San Marino. Cresciuto nella culla del pallone italiano. Diventato allenatore sognando una panchina importante e finito a lavorare in… Tagikistan.
Questa è la (breve) storia di Marco Ragini, tecnico giramondo che nel suo lungo peregrinare si è fatto apprezzare anche in Ticino, a Chiasso, Bellinzona e Locarno.
Solo “breve” perché, per raccontare gli ultimi trent'anni di carriera del 56enne mister, servirebbero ben più delle poche righe che gli dedichiamo. E allora, per non perdere troppo tempo, partiamo dalla fine. Da Dushanbe, capitale tagika.
«Dushanbe che significa lunedì - ci ha spiegato proprio Ragini, svestendo per un attimo la tuta da allenatore per indossare la divisa da guida turistica - giorno in cui si teneva un importante mercato. Qui è tutto molto gradevole, curato, ordinato, pulitissimo. Quasi una sorpresa se si pensa a come il Paese sia un po’ in affanno sotto il profilo economico. E questo perché ancora paga la guerra civile degli anni ‘90, quando per sei-sette anni tutto si fermò e rimasero solo le macerie. È anzi incredibile quel che c’è ora pensando a quanto c’era allora. La “modernità” la stanno portando gli investitori, soprattutto tedeschi e russi, ma anche americani. Ma sono poi le persone del posto a fare la differenza. Hanno una cortesia… provano sempre ad aiutarti. Anche se hanno poco, quel poco lo mettono a tua disposizione. E questo è qualcosa che avevo già riscontrato in altre mie esperienze in Asia. E poi hanno grande rispetto per chi arriva da fuori e può insegnare loro qualcosa. Nel mio caso, sanno che, per quanto riguarda il calcio, arrivo dal continente che ha la cultura più avanzata al mondo. Sanno che posso dar loro qualcosa e quindi si mettono totalmente a disposizione. Non è scontato».
E per loro sei il Direttore Tecnico e Techical Advisor delle nazionali.
«Lavoro per la Federazione tagika come supervisore dell'area tecnica di tutte le nazionali. Da quella maggiore fino all’Under 15».
Per un calcio che…
«Sta crescendo ma ha ancora molta strada da fare. Il campionato ha solo un paio di squadre economicamente forti e ben strutturate. Le altre si devono accontentare delle briciole. E questo è un problema per un movimento che ha un potenziale enorme ma che, con pochi sbocchi, non dà molte alternative ai sedicenni-diciassettenni che devono fare il salto nel professionismo. Senza le seconde squadre o le Primavera, e quindi impossibilitati a fare un po’ di “anticamera”, se non sono tecnicamente validissimi e fisicamente già strutturati tanti ragazzi rischiano di non trovare un club che possa permettersi di sostenerli economicamente. Rischiano quindi di smettere. Ed è una perdita per tutti».
Come si risolve la situazione?
«Con il lavoro. Con l’organizzazione. Con la pazienza. C’è tanto da fare».
Dopo tante avventure, dopo, tra le tante tappe, Slovacchia, Nigeria, Olanda, Repubblica Ceca, Lituania, Mongolia, Portogallo e Malesia, il Tagikistan è il “tuo” posto?
«Mi manca un po’ il mare, a dire il vero. Qui ci sono tanti posti belli da vedere, da visitare. Però sono tutte montagne, laghi e fiumi. È un po’ una piccola Svizzera a livello paesaggistico. Scherzi a parte, a livello lavorativo non sono ancora arrivato. Anche qui potrebbero esserci degli sviluppi. Nuove possibilità di crescita».
Un professionista cresciuto a pane e pallone nell’Italia degli anni ottanta-novanta punta, da allenatore, a sedersi sulla panchina della Juventus, del Milan, dell’Inter. Visto il tuo percorso “alternativo”, ti reputi fortunato?
«Come uomo mi reputo super fortunato, perché l'esperienza che ho fatto in questi trent'anni di carriera da allenatore è impagabile. È come andare ogni anno a un'università diversa. È qualcosa di impressionante. A livello professionale, invece, delle volte per almeno un paio di motivi mi sento abbattuto. Il primo è che avrei voluto dimostrare il mio valore dove ho cominciato come allenatore. Senza voler sembrare arrogante, mi sento molto più preparato di tantissimi tecnici italiani, perché ho potuto assorbire le caratteristiche migliori da ogni tipo di calcio e campionato affrontato».
Il secondo?
«Quando vedo che le società del campionato italiano, di quello svizzero, in Europa comunque, prendono sempre gli stessi allenatori anche se questi sono magari retrocessi l’anno prima… ecco due “madonne” mi vengono».
Citi sempre la Svizzera.
«Nelle mie esperienze calcistiche da voi sono sempre rimasto colpito dall’organizzazione dei club. Dalle metodologie di lavoro. Dal coordinamento tra le varie aree».
Ci sarà un motivo se, con un bacino di utenza non infinito, il pallone rossocrociato riesce comunque a ottenere buoni risultati.
«Ho parlato di Svizzera solo pochi giorni fa al presidente e al vicepresidente della federazione tagika. Ho raccontato come siete riusciti a dare una svolta al vostro calcio negli ultimi vent’anni. Avete copiato, ma con intelligenza, migliorandola, la metodologia del calcio francese e da quel momento, dopo un quinquennio di assestamento, avete iniziato a ottenere risultati. Cominciando a livello giovanile. Giù il cappello davanti al lavoro svolto. Siete passati avanti all’Italia, nonostante il bacino d'utenza è nettamente inferiore».
Viaggiare è crescere.
«Vedere, conoscere. Quando mi muovo, per prima cosa mi informo sulla religione. So che in alcuni posti è fondamentale nella vita delle persone. Per questo cerco di capire cosa troverò e come dovrò comportarmi. Poi mi guardo intorno, riesco anche a fare il turista. In Portogallo ho lavorato in Algarve, regione stupenda. Durante la mia permanenza in Malesia, invece, hanno bloccato per mesi il campionato a causa del Covid. È stato un problema? Certo. Però ne ho approfittato per girare le isole. È stata un’esperienza impagabile. Nella Repubblica Democratica del Congo mi sono beccato una guerra civile. Lavoravo a Kinshasa, una città di milioni di abitanti, dove ero praticamente l’unico bianco. Non passavo certo inosservato. Per la situazione mi sono anche un po’ spaventato, anzi ho proprio avuto paura… però siamo riusciti a completare un gran campionato e ricordo quell’esperienza come una delle più importanti della mia carriera. Tra i tanti Paesi visti il più sorprendente è però stato la Mongolia. Ho incontrato persone eccezionali e poi… Stavo a Ulan Bator, la capitale, e lì ti può capitare di vedere templi vecchissimi o case tipiche di un secolo fa e accanto dei palazzi hi-tech. Ci sono gli ospedali super futuristici, che attirano i dottori dalla Corea del Sud, i migliori d’Asia, e anche gli sciamani guaritori. E questi hanno lo stesso “peso” per la popolazione. I mongoli, insomma, rispettano in maniera incredibile le tradizioni ma sanno di vivere nel 2023».
A Ulan Bator vive quasi la metà della popolazione di tutto il Paese.
«Sì e vi racconto un piccolo aneddoto: d’inverno, quando il clima è rigido e la neve ricopre i pascoli, tutti i pastori nomadi montano le loro tende, le gher, a ridosso della città. Pittoresco, sì, ma per tenersi caldi, nelle stufe bruciano tutto quello che trovano, rendendo irrespirabile l’aria».
Il girovagare non ti ha ancora stancato?
«Un po’ di voglia di Europa mi viene quando, oltre ai miei compiti, devo pensare alla gestione e all’organizzazione di tutto quello che serve a un club. È successo in Malesia. In quei casi penso che tornare non sarebbe male, che sarebbe piacevole».
Le leghe top...
«Anche la Svizzera. Anche in Ticino, dove mi piacerebbe poter dimostrare ancora qualcosa. Da voi d’altronde ho lasciato il cuore. So che ora, con il Lugano americano, il Bellinzona in Challenge e Chiasso e Locarno più giù, il vostro calcio ha perso un po’ di identità e si è un po’ “ridotto”. Ma è sempre vivo. Il calore che ho sentito dalle vostre parti io, davvero, l’ho percepito raramente altrove. La finale di Coppa Svizzera del 2008, quella che il Bellinzona di Petkovic giocò con il Basilea… ancora mi ricordo tutte quelle magliette rosa al Sankt Jakob. Un coinvolgimento del genere, per una realtà così piccola è qualcosa di inusuale. Qualcosa del genere l'ho visto in Malesia, ma lì il mio club (il Kelantan) era spinto da una città di un milione e mezzo di abitanti».